AMARCORD SILVANO
Gli antichi mestieri alla Mostra dell'Artigianato fasanese
L'esaltazione della professionalità artigiana locale con alcuni manufatti dei maestri artieri di una volta a Fasano
FASANO - Vivevano un tempo, in quel di Fasano, gli artigiani, anzi gli artieri, autori di manufatti che erano vere e proprie opere d'arte. Il loro segreto? Il marchio doc delle “Tre m”: mente, materia, mani, con cui griffavano i loro capolavori, unici nella specifica peculiarità. Un giorno, correva l'anno 1950, caldeggiati dal vulcanico Aquilino Giannaccari al quale stava a cuore l'artigianato fasanese, gli artieri cominciarono a sognare. Che cosa? Una città artigiana, che avrebbe alloggiato un migliaio di lavoratori, esaltando una categoria produttiva da sempre considerata spina dorsale dell'economia di Fasano. Un sogno fantastico! L'ingegnere Giuseppe Attoma prese carta e penna e stilò una esauriente relazione tecnica preliminare sul progetto per la realizzazione del villaggio artigiano, e la presentò al Comune. Tutto era pronto... si industriarono a reperire fondi per la costruzione, ma questi non furono sufficienti, e l' ambizioso progetto si arenò sul nascere. Sono trascorsi 63 anni da quell'aborto, ma il tempo non ha cancellato il sogno dei padri. Con l'allestimento del “Museo delle arti antiche fasanesi” il sindaco dott. Lello Di Bari, l'assessore alle Attività produttive, avv. Renzo De Leonardis e gli organizzatori, l'architetto Cosimo Zurlo, la prof. Palmina Cannone, Aldo Carparelli, Domenico Monaco, Emanuele e Francesco Schiavone con Mimmo Lacerignola, hanno inteso regalare a visitatori e turisti una perla di quel sogno infranto.
U scarpäre (il calzolaio): stanno i calzolai fasanesi, con il grembiale, seduti al deschetto nelle loro pettìche. Su una panca sono sistemati i materiali per confezionare le scarpe: cuoio, pelli di capretto, vitello, camoscio; su uno scaffale gli strumenti e gli arnesi da lavoro: martelli, pinze per occhielli, tenaglie, lime, bussetto, marcapunti, lesina, ago, tiraforme, regolo, forbici, bottigliette di “bianchetto” e lucidascarpe di vari colori. In un angolo, una montagnola di scarpe rotte con enormi buchi, vecchie e sformate, racconta storie di miseria, di sudore, di fame. In bella vista due paia di scarpe nuove, eleganti e sfacciatamente arroganti, attendono di essere ritirate da colui che le calzerà, un gentiluomo fasanese in doppiopetto e bastoncino. Il calzolaio, intanto, continua a aggiuntare, risolare, rattoppare, tacconare, lucidare, abbozzare, impiantare, impuntire, e ingambalare, tra gli umori e gli odori della sua bottega. Sono stati tanti i maestri calzolai fasanesi, creatori di scarpe su misura di alta qualità. Ne ricordiamo qualcuno: Mèst Pite Sèppe Vèite Cupertino (con bottega in via Santostasi); Angelo Pezzolla (C.so Garibaldi); Giuseppe Pezzolla (via Mogavero); Leonardo Ventrella (c.so V. Emanuele); Gerardo (C.so V. Emanuele); Giovanni Convertini (via Paternò); Giovanni Brunetti (via S. Nicola); Regolètte (via R. Bonghi). Dicevano certi preti di una volta: “me vuláie accatté nu päre de scarpe, ma ‘nce vòlene dú o trè mèsse póure pe chiíre econòmeche” (vorrei comprare un paio di scarpe anche di tipo economico, ma è necessaria una somma pari ai proventi di diverse messe).
U fesculäre (il funaio): un particolare artigiano dei tempi andati è stato il funaio. Confezionava fiscoli, dalla circonferenza di cm. 50, per vecchi frantoi; per i nuovi, eseguiva diaframmi di giunco o di fibra di cocco, dalla circonferenza di cm.65, che erano impiegati nelle presse per la separazione dell'olio dalla sansa. Il filato di cocco, in balle, arrivava dall'India e ciascuna pesava q.1,50. Esso aveva la torsione di 10 capi, mentre i raggi del diaframma erano 39. Tutta la raggiera era ricoperta da filo di lion, un filato che arrivava da Milano, Biella e Napoli, e veniva intessuto con quello di cocco. Il funaio costruiva altresì i contenitori della pasta delle olive. Nei frantoi i fiscoli e i diaframmi erano molto usati: nelle presse venivano sistemati 40 dei primi; invece, nelle superpresse 75 dei secondi. Il lavoro del fesculäre s'intensificava all'inizio dell'autunno, quando a Fasano, ricca di uliveti, iniziava la campagna olearia. Altri manufatti eseguiti erano funi e tappeti. Lavorava solitamente all'aperto, davanti alla sua bottega, perché aveva bisogno di spazio. La memoria corre al funaio che, coadiuvato da un garzone, lavorava alla discesa di C.so Perrini (di fronte a via S. Francesco), e a quello di via Musco. Scene quasi bucoliche, che declinano un passato in cui le vie erano a misura d'uomo. Uno fra i maestri funai più stimati era Donato Musa (chiamato Dunäte mèst Mìneche perché figlio del maestro Domenico( con bottega in via Meucci 3. Un vecchio adagio recita: “Stè fäsce accume u fesculäre, apposte de scì ‘nnanze, sté vè rìte” (Stai facendo come il funaio, invece di andare avanti, vai indietro. Si allude ai movimenti eseguiti da detto artigiano nell'espletamento del suo lavoro). L' espressione era usata dalle mamme per rimproverare i figli, che non progredivano nello studio o nell'apprendere un mestiere, perciò regredivano.
U cìstäre ( il cestaio): l'artiere ecologico Nelle mani, nodose e affilate, del cestaio i polloni di ulivi, di mandorli, e le canne, diventano contenitori ecologici di varie dimensioni. Oggi in loco si possono ancora trovare le canne. Esse si tagliano con l'ultima luna di febbraio, poi si lasciano essiccare fino a maggio, si puliscono della corteccia, e, in ultimo, si fanno imbiancare al sole. Dopo queste operazioni le stesse, divenute flessibili, sono pronte per la lavorazione. La nostra gente, sapendo vivere in armonia con la natura e, soprattutto mettendo in pratica l'antico detto del bisogno che aguzza l'ingegno (non ci si poteva permettere certi sprechi di adesso), aveva imparato a utilizzare al meglio quanto offriva la campagna, e che ai nostri occhi appare inutile. I ferri del mestiere erano: a runcèdde (coltello ricurvo) e i fúrce da puté (forbici da potatura). Anticamente, panarèdde (panieri), canìstre (canestri), e cìste o coffe (cesti), servivano al contadino e al fruttivendolo per contenere e trasportare frutta e verdura, alle donne per raccogliere le olive, alle famiglie per usi diversi. Una volta, il paniere era usato anche come unità di misura. Il cestaio non esercitava solo questo mestiere. Di solito era un contadino che, nei giorni di pioggia, arrotondava le magre entrate familiari, dedicandosi alla costruzione dei recipienti accennati. Si distinguevano dagli altri i Ferrara che, negli anni Sessanta del secolo scorso, svolgevano l'attività nel loro laboratorio di vimini, utilizzando canne di bambù con strisce di castagno per realizzare panieri per la pesca, midollo di castagno per oggetti più preziosi, e giunco per le culle.
di Redazione
23/08/2013 alle 07:48:01
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