CULTURA & SPETTACOLO
Il fotoreporter Nicola Cardone si racconta senza filtri
Il giovane fasanese ha parlato del suo percorso artistico e lavorativo che lo ha portato a essere parte del team del video di Elodie
Fasano - Il mondo della fotografia affascina da sempre e coinvolge diversi giovani. In particolare, negli ultimi anni, numerosi sono i fotografi fasanesi che si sono affermati. Ma cosa c'è dietro il patinato mondo della fotografia e della moda più in generale? Ne abbiamo parlato con il giovane Nicola Cardone che da quasi un anno si è trasferito a Milano, dove sta macinando esperienze e lavori, sia nella moda ma anche nei social dove la maggior parte delle creatrici digitali la fanno da padrone quotidianamente.
Ma come nasce la passione di Nicola, per la fotografia? «Ho iniziato a scattare quando avevo tredici anni, durante il mio primo anno di liceo – spiega a Osservatorio –. Chiesi ai miei genitori una macchina fotografica reflex al Natale del 2010 e da lì mi sono divertito con i miei amici a scattare foto ovunque capitasse. Così mi sono reso conto che amavo fotografare la gente anziché i paesaggi, perché mi piaceva rubare l'anima della persona che fotografavo cercando di mostrare la connessione che si era creata con la persona che avevo catturato nel fotogramma. Ciò che mi è sempre piaciuto è che la persona quando si rivedeva potesse scorgere anche qualcosa di me, perché la fotografia è sempre un qualcosa che comprende per il 50% il soggetto scattato e la restante parte ciò che il fotografo vuole far emergere. Se la persona non si rivede nella fotografia, io non ho ottenuto nulla. Il compito del fotografo è anche di entrare in empatia con il soggetto».
Qual è il tuo percorso di formazione?
«Ho frequentato il liceo linguistico “da Vinci”, durante il quarto anno ho preso parte a un soggiorno-studio a New York dove mi sono appassionato alla fotografia “street style” in cui fotografavo i passanti e alla fotografia multiculturale anziché l'ambiente “protetto” del mio paese. Ero un grande appassionato di Disney Channel e da bambino e adolescente ho divorato tutte le serie che trasmettevano su quella piattaforma. Ho frequentato la scuola Glitter di Teresa Cecere, dal 2008 al 2012, dove ho iniziato a saggiare il mondo del palcoscenico, sia come interprete-attore che come cantante e ballerino, sino a catturare il mondo dello spettacolo attraverso l'obiettivo della mia fotocamera. Nel 2013 una ragazza mi chiese di fare le fotografie al suo diciottesimo compleanno: a conclusione mi disse “quanto ti devo?”, e rimasi stupito di questa domanda perchè iniziavo a comprendere che poteva diventare un lavoro. A quindici anni non sapevo cosa fare da grande, ma ho iniziato a pensarci seriamente. Durante il quinto anno di liceo ho frequentato anche un corso di fotografia con Ninni Pepe. Ma alla domanda “cosa vorresti fare da grande?”, ancora non sapevo che rispondere e stavo valutando l'Accademia di Belle Arti. A me piace definirmi con queste frasi di Leonardo da Vinci: “La scuola parla di artisti ma spesso ignora quelli che ha davanti e gli studenti che falliscono sono visti come i peggiori, eppure la maggior parte degli artisti di cui parlano lo erano altrettanto. Mi piace pensare che in un mondo pieno di gente convinta di essere la migliore siano stati quelli che si sentivano i peggiori ad averlo cambiato”. Leonardo da Vinci era profondamente imperfetto e irrequieto, faticava a portare avanti i suoi progetti e a rispettare le scadenze, pare che non sia riuscito nemmeno a completare dei lavori importanti. Io mi sentivo come lui: non capito. Non venivo percepito per la mia sensibilità, i docenti si basavano su ciò che producevo. Terminato il liceo decisi di prendermi un anno sabbatico per mettere in ordine le mie priorità, ho allontanato situazioni e persone che mi avevano coinvolto e travolto. Poi nel 2017 ho preso parte al mio primo lavoro documentaristico in India in cui ho girato una docuserie legato alle differenze tra le scuole in Italia e in India. Il documentario Un ponte per l'India è stato curato da Angelica Riboni, di cui ho profonda stima. Il progetto si è sviluppato qui in Italia, in particolare a Fasano alla “Bianco-Pascoli” messa a confronto con una scuola in un orfanotrofio a Mumbai che ha 21milioni di abitanti. Questa è stata una esperienza molto intensa: non avevo mai visto così tante persone in una strada, la gente mi sudava addosso. Durante questa esperienza ho avuto i miei primi attacchi di panico perché mi sentivo sovrastato da ciò che stavo vivendo in India, ma al contempo dovevo prendere una decisione sul mio futuro. Dopo l'India c'è stata una evoluzione in me, perché sono stato in una nazione fortemente spirituale con un forte contrasto sociale».
Come hai affrontato questa situazione personale?
«Già prima di partire per l'India vedevo un terapista, ma non ero sincero al 100% né con me stesso né con lui. Poi a marzo partii per l'India e al ritorno sono finalmente stato sincero con me stesso e con lui. Questa esperienza mi ha mutato: ho visto talmente tanta povertà, ho vissuto talmente tanto dolore nella mia mente, che ho finalmente dato una priorità: ho scelto me, iniziando a vedere le cose in maniera diversa».
Cosa è accaduto al tuo ritorno dall'India?
«In India sono stato venti giorni per il documentario e poi sono tornato a Fasano, ho lavorato su me stesso e ho deciso di frequentare una scuola di fotografia a Bari, la FProject, di Nico Murri, che ho scoperto essere anch'egli un fasanese. Qui ho appreso tutta la post-produzione legata alla fotografia ma mi ha formato anche a livello progettuale, nel modo in cui avviare e strutturare un progetto fotografico: cosa raccontare attraverso le foto. Ho compreso che il fotografo è anche un po' un terapeuta. Dopo aver frequentato questa scuola ho cambiato completamente il modo di editare le mie foto. Durante la frequenza sono riuscito a prendere qualche lavoretto su Fasano, facendo la gavetta e comprendendo cosa potesse offrirmi la mia città a livello lavorativo. Terminata la scuola decisi di trasferirmi negli USA per otto mesi, in realtà dovevano essere dieci mesi ma per la pandemia si sono ridotti a otto».
Perché ti sei trasferito negli USA?
«Avevo già trascorso un periodo a New York, ma sentivo il bisogno di vivere un contesto come l'America: era come se mi stesse richiamando. Avevo la necessità di ritrovarmi in un posto dove la gente non mi conosceva e io potevo prendere ispirazione dal passante “x” anziché dal mio fratello ospitante, avevo bisogno di novità. Ho scelto la California, un luogo che da sempre mi appassionava e ho pensato che fosse il momento giusto. Non mi pento assolutamente di questa scelta. L'anno prima di trasferirmi ci ero già stato per una settimana con mio padre per testare un po' il territorio, innamorandomene e poi l'ho vissuta con il mio caro amico, Jaden Smith, a cui sono legatissimo. Lui mi ha fatto vedere una California autentica e mi ha spronato tantissimo. Quando sono partito avevo 23anni, mi sentivo anche un po' “fuori età”, ma in realtà credo di aver fatto questa scelta nel momento giusto della mia vita, avevo vissuto tanto qui a Fasano ed ero pronto a fare uno step successivo. Negli Stati Uniti studiavo fotografia al pomeriggio e principalmente inglese, migliorandolo tantissimo».
L'arrivo della pandemia ha cambiato i tuoi progetti?
«Quando iniziarono a diffondersi notizie allarmanti riguardanti il Covid 19, mi sono fidato molto dei miei genitori, quando hanno riconosciuto che c'era un'emergenza in corso. Io stavo vivendo l'America con Trump che faceva pagare un tampone tremila dollari: lui affermava che se avessimo bevuto l'amuchina saremmo riusciti a sconfiggere il virus. Quando i miei genitori mi chiamarono e mi dissero che probabilmente dal giorno dopo avrebbero chiuso il negozio, mi preoccupai molto e compresi che la situazione era abbastanza seria. I miei genitori fecero di tutto per farmi rientrare: chiamarono un'agenzia perché loro conoscevano i reali voli che non sarebbero stati cancellati e che mi avrebbero consentito di rientrare in Italia. Per cui il viaggio di rientro è stato Los Angeles-Montreal, all'aeroporto di Los Angeles mi resi conto che serviva un visto canadese per entrare in Canada. Così feci un visto dal mio cellulare, presentando tutta la documentazione online: la domanda sarebbe stata accettata in un paio di ore, ma in quel lasso di tempo io avevo il volo. Ebbi una grande fortuna, perché era già iniziata l'era dello smart working per cui il visto canadese mi venne rilasciato immediatamente e presi il volo. Arrivato in Canada presi un volo per Francoforte. Poi mi imbarcai su un volo per Roma e da lì ho proseguito in treno sino a Caserta e poi Bari, dove venne mio padre a prendermi e mi resi conto della situazione in Italia: sulla strada Bari-Fasano non c'erano mezzi ed era il 17 marzo 2020. Dovetti effettuare i quindici giorni obbligatori di isolamento. A me piace fotografare la gente e con la pandemia era diventato utopia perché eravamo chiusi in casa e iniziai a chiedermi chissà quando avrei ripreso a lavorare. Stando in casa, ho cominciato a guardare serie televisive, come facevo quando ero adolescente con Disney Channel e divoravo le serie Netflix, guardandone ben trentadue. Decisi allora di inviare il mio curriculum anche a una produzione di serie tv, la Cross Production, che produce Skam Italia, remake italiano di un format di successo norvegese, ambientata in un liceo romano. Da settembre 2021 sono riuscito a essere parte della squadra della quinta stagione di Skam Italia, come assistente del direttore della fotografia».
Com'è stato il tuo impatto con il mondo delle serie tv?
«Qui mi imbatto con il discorso dell'ampio mondo della fotografia intesa come cinema. Durante il colloquio mi venne fatta una domanda: “Hai mai visto Boris?”. Risposi secco: “No! Perché sono nuovo nel mondo delle serie tv e mi sono appassionato da poco, tanto da chiedere di poterci lavorare”. Mi è piaciuto tantissimo confrontarmi con la fotografia per il cinema, ho conosciuto tantissima gente. Dopo l'esperienza a Roma, nella mia testa frullava l'idea di trasferirmi a Milano, che mi sembrava poter dare spazio alle novità e alle opportunità. Milano, secondo me, è una città molto meritocratica: si vale per quello che uno è! Al contrario a Roma questa meritocrazia non l'ho sentita: è una città molto più “antica”».
E a Milano di cosa ti occupi?
«A Milano mi trasferii a settembre 2022 per la “Milano Fashion Week”. Qui da visitatore meditativo, perché volevo capire se c'erano i presupposti per trasferirmi, mi sono ritrovato ad aiutare il noto fotografo fasanese Giampaolo Sgura. Con lui abbiamo allestito tutta la mostra che ha realizzato per la Juventus. Lui ha fotografato alcuni dei calciatori in versione black and white esponendola in un grandissimo spazio in via Mecenate. Questa è stata un'esperienza straordinaria dal punto di vista lavorativo e umano, Giampaolo è una persona semplice, che non vanta mai di aver “sfondato” nel nostro settore nonostante sia uno dei migliori. A Milano mi sono sentito un po' a casa, perché ho visto che c'è gente che vive di lavoro e di arte, valorizzando e valorizzandosi in tutto ciò che fa. Mi sono reso conto di avere una grande motivazione a lavorare a Milano, senza farmi fagocitare dalla città italiana che è più cosmopolita. Milano è una città che ti dà valore e che vive di immagini pubblicitarie, di moda. Il primo lavoro che ho fatto a Milano è stata la festa di Bold Management x Bulldog dove ero il fotografo ufficiale. Durante la Fashion Week ho scattato fotografie durante la festa ufficiale di Bottega Veneta e a gennaio 2023 Giampaolo mi ha chiesto di dargli una mano per le foto backstage del nuovo video Due di Elodie. A febbraio di quest'anno ho iniziato a seguire con le mie fotografie l'influencer Ginevra Mavilla, fotografandola, rispettando tutti i parametri della sua agenzia. Lei ha un parametro ben preciso da seguire, a volte anche di scatti da effettuare, da postare, colori che deve indossare in quanto creatrice di contenuti digitali».
Racconta di questa tua esperienza come fotografo di backstage nel video Due di Elodie?
«È stato un momento intenso, abbiamo tenuto riservata la notizia perché per le regole di Sanremo, se fosse trapelata una sola parola, immagine o nota della canzone, lei avrebbe rischiato l'eliminazione dalla manifestazione. Lei è un'artista completa che si è formata da sola, umile e disponibile. Nel video ci sono Ornella Vanoni e Michele Placido. Qui è accaduto un episodio molto intenso per me: durante la sessione con Michele Placido mentre si stava confrontando con alcuni della produzione, lui chiese di interagire con me per avere altri spunti sulla canzone».
Cosa ti aspetta ora a Milano?
«Nell'ultimo mese ho avuto l'idea di raccontare ciò che faccio e ciò che sono attraverso i social, in particolare Tik Tok. Vorrei iniziare a fare dei video self tape in cui racconto, perché no, anche la mia routine».
Cosa ti senti di consigliare al te stesso di dieci anni fa, ma anche a un ragazzo che dovrà scegliere cosa fare da grande?
«Senza dubbio di seguire il cuore, non condizionato dal giudizio di un genitore o di un amico. Nell'ultimo periodo mi sono reso conto che è stato più facile per me confrontarmi e capire chi sono conoscendo gente nuova. Il giudizio trasparente te lo può dare solo una persona che non ti conosce, che ti valuta per quello che si è».
di Marica Mastrangelo
14/05/2023 alle 06:59:38
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