FIGURE
I venditori di carbonella
Da Osservatorio anno II n. 12 - dicembre 1987
di Giuseppe Marangelli
Una voce mi risuona ancora nell'orecchio e fa palpitare il mio cuore: quella dei venditori di carbonella. Erano tipiche voci dell'inverno: voci di uomini maturi e di ragazzi. Tra i primi ricordo un uomo di aspetto robusto, almeno a me piccolo cosi sembrava, scuro di faccia, con una larga coppola sulla testa, tutto ravvolto in un suo pesante e nero mantello a ruota, e portava a spalla un mezzo sacco di carbonella.
Aveva una voce forte, chiara, sonora. In gennaio, al primo soffio dei venti gelidi, quando il cielo diventava nero e qualche fiocco, quasi per scherzo, traversava diagonalmente le vetrate delle portefinestre, subito si levava la nota voce: «Ué a ci ha pighià a carvuniiiiiiiiiiiii! Cume appice u fuùche!» La donna povera, quella che non aveva potuto fornirsi di sacchi di carbonella, ma che pure non rinunciava alla consolazione di vedere il proprio braciere irradiare calore e luce, si faceva sulla porta e comprava; “sera per sera”, con parsimonia, il prezioso combustibile nero che avrebbe fatto diventare d'oro nel braciere. Svelta, si riannodava il fazzoletto sulla testa e rabbrividendo, si portava sull'uscio: «Cé maine, stasaire! Ué cumà viìne ddò». E chiamava il venditore. E cosi riceveva nel suo braciere di lamiera nera, o di rame, o di rame e ottone, la carbonella che vi scivolava con lieve suono metallico quasi musicale, destando una leggera nuvoletta di fumo nero. Dal taschino del grembiule la donna toglieva una piccola moneta e la metteva nella grande mano - l'ampia palma nera dell'omone rendeva ancora più minuscola la moneta - del venditore, che ringraziava:
«Grazzie a segnerì! Buona saire!» e continuava più spedito e più contento: «Cume appicce u fuùche!» Altre donne a quel grido, nella sera gelida, pensando al braciere acceso, pieno di buona brace gialla, chiamavano: «Cummà! Cummà! Viine ddò!» E quell'uomo piuttosto anziano, che certo aveva lavorato durante il giorno, portava, a sera, il conforto del fuoco nelle case altrui, quando egli stesso avrebbe avuto bi sogno di riposo accanto ad un bel braciere acceso.
Nei giorni di neve o di freddo, intenso, quell'uomo non bastava a soddisfare le richieste di carbonella. Allora si improvvisavano venditori, alcuni laceri monelli con la faccia nera, con le mani nere, con i cenci sporchi di nero, che tremando dal freddo lanciavano il loro grido dapprima squillante, poi sempre più rauco e fioco: «Cume appicce u fuùche!» Guadagnavano cosi poche lire che consegnavano alle loro mamme, lieti, perché col denaro guadagnato, consentivano una più sostanziosa cena a tutta la famiglia.
Il racconto è tratto da "Controra"- edizione dell'autore.
di Redazione
27/05/2013 alle 11:05:52
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