MENANTE
Il consesso grosso
Da Osservatorio anno II n. 2 – febbraio 1987
Il “Sandro” Padre.
Appena li vidi, belli e sistemati, nell'emiciclo, in duplice filar (come i cipressi di San Guido), pensai subito ad Alì Babà e ai suoi quaranta ladroni. Ma, a ben vedere, l'accostamento dei rappresentanti del popolo indigeno con i personaggi della favolistica orientale, era fuori posto. Innanzitutto c'era l'imbarazzo per la individuazione dell'Alì Babà della situazione.
Il segretario comunale? Si, può essere. Ma quale? Quello attuale, o quello che ha preso il volo in terre felliniane? Bah! Sia l'uno che l'altro conoscono bene il mestiere dei prestigiatori e degli sgamoffatori: san certe pelli! Che Allah li abbia in gloria! Tuttavia a far da capoladroni non ce li vedo; né l'uno, né l'altro; anche perché il primo ha la vocazione scientifica al gran maestro burattinaio e il secondo ha la predisposizione ai rivoluzionamenti radicali.
E i quaranta, son veri ladroni? Dubbio atroce, questo, che tormenta gli insonni. Personalmente non li vedoa far la parte dei predatori. Oddì (forma francoprovenzale di Oddio!), in pectore, arrangatori lo sono! Chiunque poggi le chiappe su di un qualsiasi scanno del potere sogna di avere, prima o poi, un grosso affare fra le mani per gestirlo a proprio godereccio piacimento. Anche il più immacolato e il più santarello degli uomini, una volta immesso nel politicame, pensa all'occasione buona. E come ben si sa, è l'occasione che fa l'uomo ladro.
Nel nostro caso, però, le occasioni non son per tutti. E allora - mi chiederete con l'abituale insistenza, sbiellati egregi e dilettone dell'anima mia - a chi rassomigliano i membri del maggior consesso cittadino? Ovvia, a se stessi! Ciascun personaggio è pezzo unico. Ma che veramente vogliamo confondere, per esempio, il Sandro Padre con un qualsiasi altro sindaco? Egli è l'unico, il solo, il singolo, l'irripetibile, il non fotocopiabile, il se medesimo sotto ogni longitudine e latitudine: incazzoso, accigliato, rubicondo (per ragione d'anagrafe), sbraitante. Egli, nato genitore (cosa piuttosto comune al Sud), controlla tutto, aricontrolla tutti, aggiusta qui, interviene là. Sempre al palazzo, venticinque ore su ventiquattro (quando dorme in quel di Pezze sta col pensiero, in pigiama, in piazza Ciaia); egli, capo per vocazione e formazione (caiatina) non consente ad alcuno di mettere in discussione la sua autorità. La “lesa maestà”, infatti, è il peggior reato che si possa commettere nella repubblica indipendente liberalmonarchico-socialista del feudo baliale municipale di Fasano.
Neanche il patriarca Mosé, che pure è abituato a navigare in acque impossibili, può permettersi di dire al Sandro Padre fatti più in là o “abbenedica ”; senno son scintille e la cosa - nella migliore delle ipotesi - va a finire a vignetta da copertina per l'Osservatorio.
Altri personaggi irripetibili sono quelli del gruppo socialista: inquieti, agitati, rivoluzionati, controrivoluzionati, permanentemente in crisi, in calore, in bollore. Sono sette, tanti quanti i colori dell'arcobaleno e capaci di combinarsi in tutte le gamme cromatiche. Non si è mai capito chi è il loro vero capo branco, per cui lo rinnovano ogni settimana o quasi; nei momenti cruciali la nomina è “ad horas”. Ogni tanto si sbranano fra di loro, sempre per determinare chi è il capo (e subito dopo buttarlo a mare puntualmente). Sono tutti “ovviamente” seguaci di Garibaldi. Perché “ovviamente”? Because Craxi si rifà a Garibaldi: così come il Generale aveva proibito ai suoi ufficiali di insegnare il “dietro front” ai volontari, alla stessa maniera il Bettino nazionale ha intimato ai dirigenti del partito di ritenere assolutamente abolito l'istituto delle dimissioni. Sicché un socialista, una volta insediatosi casualmente su di una poltrona vi ci rimane irrimediabilmente incollato, e non ci sono bombe, raffiche di mitra, cannonate, o quant'altro che possano minimamente scazzicarlo!
Altra pezzo unico - ma veramente unico (e trino) – èì il socialdemocratico; anzi, qui siamo di fronte al Grande Spirito. Lui è onnipresente, onnipossente, onnitutto: è a Roma, è a Brindisi, è a Fasano. Contemporaneamente! Col solo prestigio spirituale copre tutti gli spazi. Lui può! I suoi interventi ricordano Pablito Rossi, che in campo non lo si vede per niente se non quando, per improvvise e fugaci apparizioni, v'è da allungare la zampetta o la testolina per il gol risolvitutto. Similmente il Grande Spirito si fa carne, ossa e voce nei momenti significativi (nomine et similia).
Sono due, invece, i seguaci di Ignazio Ciaia. Non fanno rumore e si guardano la mano con discrezione. L'uno tace, ascolta (si e no) e guarda con interesse in bocca ai suoi dirimpettai facendo mentalmente il conto sull'eventuale guadagno che ne verrebbe per turature, piombature e altre torture ai molari, canini, incisivi e intero apparato ganasciatorio democristiano. Mentre egli pensa alla convenzione dentaria da stipulare con i diciannove scudocrociati (più aggregati dell'ultima ora), il suo collega giacobino si macera nell'eterno irrisolta dubbio se lui, spudoratamente monarchico per sabauda casata debba professare impunemente il repubblicanesimo. Tant'è. C'est la vie. Egli, nelle more, spadolineggia e di tanto in tanto passa in rivista i suoi fidi vigili urbani finalmente in divisa.
Ai confini della realtà è il liberale. Il bel dottorino limita la sua pudica presenza a poche occasioni, quasi per timore di irrompere - dopo tanti anni di astinenza del suo partito dalla vita pubblica locale - in maniera traumatica in un organo collegiale (il quale notoriamente è pur sempre “consesso”, a differenza del coro degli angeli che è asessuato e del coro delle voci bianche che è castrato). La divagazione coral-linguistica non c'entra comunque col nostro fascinoso cavouriano che si è rilevato un magistrale e meraviglioso partner della maggioranza: se ne strasbatte! Non rilascia dichiarazioni, non rilascia assegni a vuoto e lascia, invece, che gli altri si scornino tra di loro.
Chi, invece, avvezzo ai cenobi e alla vita di comunità, si è sentito solo e smarrito in quella grande sala di confabulatori, è stato il pio uomo. All'inizio si è buttato nella mischia con piglio savonarolesco, ma poi preso dalla nostalgia (e da chi concrete opportunità), memore degli incensi degli altari (e dimentico dei tanfi delle botteghe artigiane), sotto cappa - così come si addice a un monaco - è tornato a riabbracciare la croce con tutto lo scudo.
Della masnada capitanata dall'avvocato tarraiolo (aggettivo di fresca coniazione che significa “addetto alle vertenze presso il Tribunale Amministrativo Regionale”) ne parleremo in altra occasione: la variegata composizione e la virulenta vivacità, merita trattazione a parte.
Un breve cenno (con l'impegno pero di tornare sull'argomento) va fatto per i sei mancini. E un gruppo rappresentativo. Rappresentativo soprattutto di tutte le taglie: dalla mignon (detta anche mezza bottiglia, secondo il sistema di misurazione umbracchiale) alla capason (molto capace o extra large); tale assortimento consente di poter indossare, di volta in volta, gli abiti di circostanza, pro sinistra, pro patria, pro domo sua.
Completano il quadro quelli dell'allegra compagnia: una nota folk non guasta!
Bene, lo spazio a mia disposizione è finito, perciò vi saluto allegramente col consueto
godimento a tutta birra!
di Redazione
04/02/2013 alle 12:02:41
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