MEDAGLIONI FASANESI
Antonio Scianaro
Carrellata di personaggi illustri fasanesi pubblicati su Osservatorio e pubblicati sul volume "Medaglioni Fasanesi" di Secondo Adamo Nardelli
Antonio Scianaro
(da “Osservatorio”, agosto 1997)
A primavera del 1930 venne da Mesagne, terra messapica, un imponente 27enne, alto e ben piantato, esuberante, militaresco, ricco di famiglia e di nomi (ne aveva ben quattro: Antonio, Francesco, Giuseppe e Fortunato), per assumere la condotta veterinaria di cui aveva vinto brillantemente il concorso. Così, l'aitante medico delle bestie, alto all'incirca 1 metro e 85, dopo un anno di condotta presso il Comune di Oria, s'inseriva a incastro nella società e nel sistema di potere locale. Del suo destino domiciliare vi fu un chiaro segno premonitore. Quando il suo benestante papà lo dichiarò all'anagrafe mesagnese, portò con sé il suo barbiere come testimone, di nome Fasano Francesco. Così l'atto di nascita prescrisse anche la residenza. Il giorno del suo arrivo si presentò al regio podestà dell'epoca, il cav. uff. dott. Onofrio Calefati, che gli diede il benvenuto nella nostra città. Trovò alloggio al civico 7 di via Roma in un “soprano” dell'abitazione di Teresa Natoli in Masi. Quella via, con via Mignozzi, via Taranto, corso Perrini e via S. Francesco, ospitava le principali botteghe artigiane: carrozzai, sellai, fabbri, battirame, falegnami, carpentieri, maniscalchi, ecc., che costituivano meta costante per massari, agricoltori e contadini.
Le prime relazioni amichevoli del veterinario si stabilirono con gli artigiani che avevano bottega vicino alla sua abitazione, tra i quali il maestro fabbro Antonio magno, il carradore Giuseppe Nistri detto “Polpetta” e l'ebanista Pietro Leone, che s'ingegnarono a fargli conoscere la gente di campagna.
L'alloggio del veterinario era a un tiro di schioppo dal mattatoio, dove imperava il custode Domenico Dell'Aquila detto Tenghìlle, orgoglioso membro della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, e pronto a gridare “viva il duce” anche quando faceva primiera nel tressette col “franco” nel retrobottega di Leonardo Sardella detto “Piccannacchio”, in contrada Balice, il sabato sera.
Antonio Scianaro si era laureato al Regio Istituto Superiore di Medicina Veterinaria di Napoli nell'anno scolastico 1925-26, ottenendo nel dicembre 1926 la idoneità all'esercizio della professione. All'Università di Bari frequentò poi il corso complementare teorico-pratico d'igiene, superando l'esame con 29 punti su 30. Un corso di studi in perfetta cronologia non può che produrre un ottimo professionista: tale era il dott. Antonio Scianaro, veterinario comunemente indicato e chiamato don Antonio. Con il suo arrivo, quello che veniva all'epoca definito pomposamente il sistema sanitario era al completo: ufficiale sanitario don Luigi Albano per la salute degli uomini; don Antonio Scianaro per quella delle bestie; don Nicola Lagravinese, che addirittura aveva scoperto il “fai da te” in chirurgia adoperando il bisturi su se stesso, vegliava nell'ospedale civile, con la sua indiscussa bravura per ogni necessità di intervento “con i ferri”. Anche i rincalzi non erano da meno: l'indimenticabile gran signore don Salvatore Russi per la condotta medica, e don Marcello Greco per gli animali, intelligente prodotto di una “mammana” storica di Fasano, donna Amalia, che i popolani chiamavano “donna maglia”, e che contribuì personalmente a rimpolpare di medici la nostra città attraverso le sue generazioni successive.
Il sistema di potere locale accettò con grande gioia l'inserimento del gigantesco veterinario mesagnese, e usò ogni mezzo per trattenerlo, specie quando apprese che il “giovanotto” era un fascista della prima ora. Infatti don Antonio indossò la camicia nera il 3 marzo 1921 all'età di 17 anni, 3 mesi e 3 giorni, quando era giuridicamente incapace di intendere e di volere, non avendo ancora compiuto i 21 anni: si iscrisse ai fasci di combattimento circa 19 mesi prima della marcia su Roma, divenendo così un fascista della prima ora, che poteva addirittura diventare “sciarpa littorio”.
Un certo numero di fasanesi, di quelli che comandavano e che per continuare a comandare si erano truccati da fascisti ma non volevano esporsi con l'esercizio diretto del potere alle inimicizie o alle possibili future “rappresaglie”, cercavano di schivare l'investitura di incarichi di vertice, come quello di segretario politico del Pnf. Don Antonio, giovanissimo, aitante, autoritario, amante degli stivali, vociante senza volgarità, era per quei signori un segretario politico del Partito Nazionale Fascista da manuale. Perciò lo “catturarono” e lo nominarono. Ma sbagliarono. Il fascismo di don Antonio era nato laddove i sentimenti nazionalisti erano stati offesi, e lui, come tanti altri studenti, si era ribellato ai maltrattamenti che ricevevano i reduci dellla prima guerra mondiale, mutilati compresi, da presunti pacifisti più dediti ai disordini che agli ideali. La burocrazia organizzativa, la conta delle tessere non erano congeniali al suo carattere “operativo” e non sedentario. Così la sua investitura ebbe vita breve.
Comunque l'élite fasanese aveva accettato il baldo giovanottone anche per la sua capacità professionale, e non intendeva mollarlo. Nei salotti, dove progetti e strategie venivano messi a punto con grande precisione, si decise che il veterinario andava accasato adeguatamente. Si misero in moto pronubi importantissimi: donna Maria Melpignano Albano, don Luigi Albano e il cav. uff. Giuseppe Pezzolla, direttore del Credito Agricolo e Commerciale Fasanese, che pensarono senza colpo ferire alla signorina Antonietta Schiavone, ricca di fascino, di cultura e di famiglia, e di 7 anni più giovane dell'«aspirante». Il 24 gennaio 1934 il dott. Antonio Francesco Giuseppe Fortunato Scianaro la impalma. Paraninfi intelligenti e importanti come quelli innanzi citati non potevano fallire il piano.
Otto figli hanno popolato il focolare di casa Scianaro. Tra questi, quasi una inondazione di medici: Domenico, cardiologo; Lucio, pediatra; Patrizio, oculista; Valeriano, odontoiatra. Gli altri? Elvira, licenza magistrale; Maria, laurea in lingue; Giuseppe, laurea in legge; Giovanni, perito agrario. Col matrimonio, don Antonio entrò a pieno titolo nella ristretta cerchia di quelli che contano. Per prima cosa fu ammesso nella Confraternita del Pio Monte del Purgatorio. Per statuto, l'ammissione era riservata a «dottori di legge e medicina, galantuomini, professori anche di chirurgia, notari e ai loro figli... fuori delli soprannominati è proibito a detta nostra congragazione altre persone». «Nell'appartenenza a una congregazione riservata solo al proprio ceto i notabili benestanti - nota Antonietta Latorre nel suo magnifico studio Le confraternite di Fasano dal XVI al XX secolo - vedevano realizzare l'antico sogno di nobilitarsi».
Don Antonio entrò poi nel consiglio di amministrazione del Credito Agricolo e ne divenne autorevole vicepresidente. Ormai era un personaggio che contava e comandava anche nel settore finanziario, nell'ambito di una delle due banche locali che si dividevano senza liti apparenti la totale influenza che esercitavano all'epoca sul nostro sistema economico senza altra interferenza, che certamente un'agenzia sonnecchiante del Banco di Napoli istituita negli anni ‘30 non poteva esercitare.
Presiedette per molti anni anche il comitato per le feste patronali, dove la sua presenza, incutendo timore reverenziale, facilitava migliori offerte da parte dei taccagni. Non poteva non essere prescelto anche a presiedere il circolo cittadino, detto dei galantuomini, dove, utilizzando la sua formidabile memoria, seconda solo a quella dell'avv. Giuseppe Roma (altro illustre trapiantato), era un imbattibile scoponista, che andava - è proprio il caso di dirlo - in bestia quando il compagno sbagliava, cosa, questa, che gli creava qualche difficoltà a formare la coppia, perché tutti evitavano il rischio di essere chiamati “bestia”.
Fece anche parte della ristretta cerchia ammessa nella mitica biblioteca del palazzo Colucci, dove lo scopone assumeva la dignità di scienza sulla quale era chiamato alla disputa anche lo studioso don Alessandro, anfitrione di elevato stile. Non c'era scena di vita cittadina sul cui sfondo non apparisse la figura popolarissima di don Antonio Scianaro, il medico delle bestie, compresi i cattivi giocatori di scopone. Non era entrato solo nei registri dell'anagrafe, ma anche e simpaticamente nell'immaginario popolare. Morì a 60 anni e fu un lutto per tutti, qualcosa che venne a mancare sul palcoscenico della vita paesana.
di Redazione
14/01/2013 alle 18:46:49
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