LA POLIEDRICA PERSONALITà DI UN FASANESE ILLUSTRE
Bepi Russi, una vita controcorrente
da Osservatorio n. 1-2003
Bepi Russi (1900-1970).
«Russi Giuseppe di Cataldo, nato a Fasano il 21 marzo 1900, sovversivo, geometra, corrispondente giornalistico». Le parole dello schedario politico della Questura di Bari, negli anni '20, presentano con riduttiva e lapidaria prosa poliziesca un personaggio di multiforme ingegno, colpevole di non allinearsi a chi comanda. Giornalista, fondatore e direttore di periodici, disegnatore satirico, vignettista, pittore, regista cine-teatrale, artista tout court. Bepi Russi, fasanese illustre ma da molti dimenticato, trova finalmente una riscoperta nel volume biografico-antologico che il suo grande amico editore Nunzio Schena ha sfornato a cavallo delle festività di fine anno, coronando un sogno a lungo inseguito.
Gianni Custodero e Angelo Sante Trisciuzzi sono gli artefici del prezioso lavoro, che ripercorre, per quanto possibile, l'avventura esistenziale di questo «testimone del tempo», inquadrandone le vicende personali nel più ampio contesto nazionale, regionale e locale.
Dopo l'infanzia nel paese natìo, a 15 anni Russi si trasferisce a Bari per motivi di studio e di lavoro. Ancora teen-ager, come si direbbe oggi, comincia a farsi notare nel pullulante mondo della stampa barese grazie all'innata abilità con la matita. Collabora con lo pseudonimo di Esperus ai periodici satirici Patapon e Pss...pss...: di quest'ultimo, «umorale settimanistico spupazzettato» (definizione ufficiale!) il Nostro ridisegna la spiritosa testata, imperversando in prima pagina con le sue vignette. Siamo nel 1924-25, una fertile fase di creatività che lo vede impegnato su vari fronti: Giornale d'Italia, Il mondo, l'Avanti! e soprattutto Il Nuovo Corriere diretto da Alfredo Violante, quotidiano barese che “ballò” una sola estate, quella del 1925 appunto. Politica in prima pagina e cronaca cittadina all'interno: questi i temi su cui Russi esercita la sua graffiante ironia, provocando in un paio di casi perfino il sequestro del giornale da parte della occhiuta censura di regime. Siamo nel Ventennio, infatti, e Bepi Russi passa per antifascista sol perché è uno spirito libero. Sulle sue idee politiche fa chiarezza Gianni Custodero: era sicuramente di destra, ma senza alcuna ortodossia. Non si iscrisse mai al Pnf e nel dopoguerra prese le distanze dal Msi, ma, al contrario di tanti voltagabbana, non rinnegò mai il passato che l'aveva visto in camicia nera come tanti (quasi tutti) della sua generazione.
Negli anni Trenta, a Roma, Bepi collabora al bisettimanale umoristico Marc'Aurelio e al Settebello. Non dimentica però la sua regione, firmando caricature su La Puglia letteraria. Partecipa alle campagne militari in Africa e dirige ad Addis Abeba il quotidiano Corriere dell'Impero: in questa fase convulsa, e per molti aspetti tutta da verificare, si ha notizia di sue collaborazioni a varie testate coloniali (dal Corriere eritreo al Quotidiano della Somalia) e corrispondenze giornalistiche dalle colonie per i quotidiani nazionali (in particolare il Giornale d'Italia).
Arriva la guerra e Bepi cade prigioniero degli inglesi. In un campo del Sudan, dietro il filo spinato, si prodiga per rendere meno dure le giornate dei connazionali catturati dal nemico. La privazione della libertà dura sette anni: un'esperienza che lo segna profondamente, lasciandogli addosso il “mal d'Africa” e il mito del reducismo.
Negli anni '50, a Roma, dirige, scrive, illustra, titola e impagina (!) il settimanale umoristico L'Ombrello, che riporta sotto la testata un'illuminante didascalia: «Mevio, uomo probo e risoluto, disse pane al pane e fu perduto». Forse una dichiarazione autobiografica, secondo Gianni Custodero, che sottolinea come a Bepi Russi non giovò «l'estrema coerenza, quella di chi si spezza ma non si piega: indocile per carattere, non era uomo da irreggimentarsi o da accettare funzioni gregarie o ruoli subalterni». Per tali aspetti del personaggio, ed anche per l'identità di pensiero anarco-conservatore, viene in mente il paragone con Indro Montanelli.
Decine e decine di vignette e disegni, naturalmente, corredano il volume, da quelle storiche degli anni Venti, con bersagli del calibro di Mussolini, Giolitti, D'Annunzio, Gentile, Farinacci, De Bono, don Sturzo, Salandra, in una stagione davvero critica per la libertà di stampa, a quelle di costume, ancor oggi gustose, perché prendono in giro vizi e vezzi umani, universali e intramontabili. Poi ci sono quelle di ambientazione barese, e infine quelle fasanesi, con una galleria di ritratti schizzati in punta di matita, efficacissimi nel particolare fisiognomico che diventa descrizione di carattere. Il capitolo scritto da Santino Trisciuzzi ricostruisce la Fasano del primo Novecento in cui Bepi venne alla luce, e racconta l'incredibile scoperta del bellissimo documentario in bianco e nero Paese tra gli ulivi, prodotto e diretto da Bepi Russi nel 1951, fortunosamente ritrovato dopo cinquant'anni in un ripostiglio del Cinema Kennedy (cfr. Osservatorio n. 12-2001, p. 79).
L'instancabile Bepi disegnò i manifesti delle prime edizioni della mostra artigiana fasanese, e qui, nella sua città, tornò per stampare la sua ultima creazione giornalistica, Il reduce d'Africa, mensile pubblicato dalla Grafischena negli anni '60. Cosimo Iasiello e Nunzio Schena rievocano nelle ultime pagine del libro quel «Forattini d'altri tempi» che «era di casa in tipografia», «sempre generoso e disponibile, un vulcano di idee e iniziative che, con entusiasmo contagioso, coinvolgeva chi gli stava vicino». Resta il rimpianto di avere tra le mani solo una minima quantità della sua sterminata “produzione” scritta e disegnata, in gran parte persa nel buco nero del tempo.
di GIOVANNI QUARANTA
di Redazione
28/03/2016 alle 10:57:08
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