LA SUGGESTIVA IPOTESI DI UNO STUDIOSO AQUILANO
Manzoni copiò dal Ciaia?
Da Osservatorio n. 11 – 2002
Ignazio Ciaia (1766-1799).
Ei fu. Siccome immobile... Tutti conoscono il verso iniziale del Cinque maggio di Alessandro Manzoni, ma pochi sanno che la celeberrima ode scritta in morte di Napoleone Bonaparte presenta impressionanti rimandi e analogie con una composizione del poeta fasanese Ignazio Ciaia. Il “caso”, che si configura come un vero e proprio giallo letterario, è stato oggetto di una approfondita ricerca recentemente pubblicata (aprile 2002) dalla rivista specialistica Studi e problemi di critica testuale, edita dalla Facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Autore il prof. Raffaele Morabito dell'ateneo dell'Aquila, che ha condotto un'analisi comparata tra il testo manzoniano, scritto di getto nel luglio del 1821, e l'ode ciaiana A Carlo Lauberg, risalente all'anno 1794.
«I versi di Ciaia – scrive Morabito – non erano stati pubblicati in volume, ma poterono avere tuttavia una loro circolazione non esigua, specialmente fra i fuorusciti napoletani che avevano condiviso l'avventura repubblicana, ed anche Manzoni dovette conoscerli. Potrebbe averglieli fatti conoscere, per esempio, uno di quegli esuli a cui fu legato da sentimenti amichevoli, come Vincenzo Cuoco». I rapporti fra l'autore dei Promessi sposi e il Cuoco sono documentati anche dall'epistolario manzoniano, pubblicato da Adelphi. Dunque sarebbe stato il Cuoco, padre del famoso Saggio storico sulla cosiddetta rivoluzione napoletana, a fungere da tramite fra un poeta della profonda provincia sudista, aureolato da una tragica fine, e il grande scrittore lombardo. Le poche poesie del Ciaia, infatti, furono pubblicate soltanto postume: prima da Giuseppe Del Re (in Ignazio Ciaia e le sue poesie, Stamperia dell'Iride, Napoli, 1860); poi da Ludovico Pepe (Ignazio Ciaia martire del 1799 e le sue poesie, Vecchi, Trani, 1899); e infine da Marialuisa Semeraro Herrmann (Ignazio Ciaia, impegno civile e opera poetica, Schena, Fasano, 1976).
Proprio quest'ultima, nella sua biografia del «solo ingegno di poeta che allora sorgesse nell'Italia meridionale» (secondo la definizione di Benedetto Croce), stabiliva un primo paragone col Manzoni: non con quello del Cinque maggio, ma con quello di Marzo 1821.
A tal proposito, due anni fa, lo studioso di San Vito dei Normanni Angelo Raffaele Epifani, in un articolo uscito sul periodico sanvitese Il Punto, aveva evidenziato l'opposizione “ideologica” esistente fra il Ciaia di A Carlo Lauberg e il Manzoni di Marzo 1821. Nell'ode ciaiana, infatti «sono presenti tanti miti giacobini e soprattutto quello delle repubbliche sorelle, per cui la Francia, dopo aver liberato se stessa, doveva aiutare gli altri popoli a conquistare la propria libertà». Nell'ode manzoniana, invece, «è completamente rovesciata, dopo tante tragiche esperienze storiche, la posizione di Ciaia: Manzoni ricorda quando gli italiani speravano dallo straniero la loro libertà, mentre con i moti del '21 dimostravano che ogni popolo deve conquistarsi da solo la sua libertà... Certo – aggiungeva Epifani – il Manzoni non conosceva l'ode di Ciaia, ma da giovane aveva nei primi anni dell'Ottocento frequentato alcuni esuli napoletani, fra cui il Lomonaco e il Cuoco, che senza dubbio a Napoli avevano avuto rapporti col Ciaia. Le opposte posizioni di Ciaia e di Manzoni fanno capire le profonde differenze fra gli anni dei grandi sogni rivoluzionari e il primo Ottocento, dopo il fallimento delle repubbliche giacobine e il dispotismo napoleonico» (cfr. Ciaia e Manzoni: opposte posizioni, in Osservatorio n. 11-2000, p. 67).
E torniamo ora a Raffaele Morabito, che nel suo confronto tra i due poeti prende in esame non Marzo 1821 ma Il cinque maggio. Egli va oltre il contenuto, e nota come «l'ipotesi di un rapporto Manzoni-Ciaia si può appoggiare su un primo dato non trascurabile: la scelta di un identico metro», ovvero strofe di sei settenari, «il primo il terzo e il quinto sdruccioli e irrelati, il secondo e il quarto piani e rimanti tra loro, l'ultimo tronco e rimante con l'ultimo di una strofa contigua». Uno schema caro ad Alessandro Manzoni, che l'adottò anche per il secondo coro dell'Adelchi. Oltre alla «perfetta e significativa coincidenza con lo schema dell'ode di Ciaia», il prof. Morabito rileva tutta una serie di riscontri, parallelismi e identità lessicali nel dettato delle due poesie, con svariati elementi del componimento A Carlo Lauberg che riaffiorano nel Cinque maggio.
Ad esempio il verso manzoniano «lui folgorante in solio», riferito al Bonaparte, ricorda quello ciaiano «sta sull'incerto soglio», riferito al re Ferdinando IV di Borbone, così come «di mille voci al sonito / mista la sua non ha (...) e scioglie all'urna un cantico / che forse non morrà» (Manzoni) si ritrova in «di mille voci il suono (...) e a scioglier vado i cantici / sacri alla libertà» (Ciaia). E ancora: «stette la spoglia immemore» (verso 3 in Manzoni) somiglia indiscutibilmente a «del prisco ardire immemore» (v. 151 in Ciaia). Tante, infatti, sono le coincidenze testuali in fin di verso, con un vocabolario comune che vede la speranza da un lato e la speme dall'altro, benefica e benefico, miseri e misero, pavide e pavida, i rai e i rai fulminei, un identico tacito, e così il mar, il fulmine, lo strazio, il periglio, in un crescendo di incredibili corrispondenze, in un gioco speculare troppo sfacciato per essere un mero frutto del caso. «Suggestioni – commenta Morabito –, memorie vaghe che, nel fervore insolitamente immediato e concentrato della composizione, dovevano agire in Manzoni... Di modo che, se non si può dire che l'ode al Lauberg sia stata una “fonte” manzoniana, si può però considerarla come un elemento non secondario di quel materiale poetico da cui partiva e di cui si serviva Manzoni per comporre dei versi che molti si sarebbero compiaciuti di leggere come frutto di una subitanea, quasi miracolosa ispirazione».
La parola “plagio”, che si usa in questi casi, può forse apparire eccessiva: diciamo che in epoca moderna si parlerebbe di innocenti “citazioni”...
Adesso, però, è opportuno aprire una parentesi. Chi era Carlo Lauberg, il protagonista dell'ode ciaiana? Su questo personaggio, che aveva gettato alle ortiche la tonaca di frate scolopio per poter godere appieno dei piaceri della vita, ci siamo soffermati in altra occasione (v. Ciaia e il 1799 tra storia e mitologia, in Osservatorio n. 2-1999, pp. 70-71) mettendone in rilievo l'emblematica vicenda di traditore e arraffatore di pubblico denaro. Capo riconosciuto del movimento giacobino, costui fuggì da Napoli una prima volta nel 1794, scampando all'arresto e abbandonando alla loro triste sorte gli altri congiurati, tra cui il povero Emanuele De Deo. Proprio in occasione di tale precipitosa partenza Ciaia dedicò la sua ode al Lauberg, la cui nefasta influenza provocava una vera e propria sottomissione psicologica in tutti i giovani intellettuali giacobini.
Il fuggiasco rientrò a Napoli nel gennaio 1799 al seguito delle truppe francesi, assumendo per primo la presidenza del governo provvisorio e lasciando la carica a Ciaia a fine febbraio. Accusato di peculato dai suoi stessi colleghi rivoluzionari, in aprile Lauberg fu arrestato ma, misteriosamente e stavolta definitivamente, riuscì a scappare ancora, con le tasche gonfie di alcuni milioni di ducati sottratti alle contribuzioni estorte dai francesi ai napoletani, e con un consistente bottino di oro e gioielli. Mentre coloro che aveva plagiato con le sue teorie massoniche (compreso il Ciaia) finivano sulla forca, l'ex monaco e profeta della rivoluzione, ormai ricco e abbondantemente ammogliato, si stabilì a Parigi, chiese e ottenne la cittadinanza francese, si godette la refurtiva e dopo la Restaurazione fu addirittura insignito della Legion d'Onore. Infine, negli ultimi anni di vita tentò di nascondere il suo passato di giacobino, arrivando a dire che il primo presidente della Repubblica partenopea non era stato lui bensì «un suo fratello ancora vivente in Napoli» (v. F.M. Di Giovine, 1799 Rivoluzione contro Napoli, Edit. Il Giglio, Napoli, 1998, p. 112, che cita quanto riportato dal Croce).
Non risulta se Ignazio Ciaia si sia pentito delle commosse parole di riverenza e ammirazione che aveva rivolto a cotanto soggetto nell'ode più volte citata. Nel dubbio, ci asteniamo dall'emettere verdetti definitivi sulla sua ingenuità di giovane idealista sedotto dal “vecchio volpone”. Ma ci chiediamo: come ha fatto il Comune di Fasano ad intitolare al Lauberg una strada?
Certo, appare quanto meno curioso che Alessandro Manzoni possa aver tenuto a modello, nello stendere febbrilmente il suo Cinque maggio, proprio la composizione ciaiana più “sbagliata” nell'impianto concettuale, cioè quella più sideralmente lontana dalle sue idee di ferreo credente in Cristo e nella Santa Chiesa Cattolica, dal suo profondo sentimento religioso, dalla sua concezione provvidenziale della storia. L'ode A Carlo Lauberg (costituita da 186 versi) è infatti la più anticlericale e “illuminista” fra le dodici poesie di Ignazio Ciaia finora conosciute. Essa contiene ferocissimi attacchi non solo alla legittima dinastia regnante dei Borbone di Napoli ma anche al papato, assimilato a un potere oscurantista, superstizioso, nemico del popolo e dell'Italia.
E quanto ciò sia contrario alla poetica manzoniana balza agli occhi con tutta evidenza.
Non fu però il “messaggio”, evidentemente, ad attrarre il Manzoni, bensì l'impeccabile perfezione formale del testo ciaiano, sì da autorizzare l'ipotesi che il grande poeta milanese avesse sedimentato quell'ode nel proprio “bagaglio” letterario solo per la sua raffinata costruzione stilistica e la sua nitida musicalità.
di Giovanni Quaranta
di
02/01/2016 alle 17:04:58
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