ALTRE POESIE DI DON FILIPPO BONIFACIO
Rime salaci del primo Novecento
Da Osservatorio n. 9 -2002
Rachele Bonifacio, sorella di son Filippo
Dopo aver presentato ai lettori, negli ultimi due numeri di Osservatorio, quattro poesie e una farsa inedita di Don Filippo Bonifacio, continuiamo ad avventurarci (perché di avventura culturale si tratta) nella sua produzione ancora sconosciuta. In una poesia in lingua, datata Selva 21 aprile 1923, alla quale daremo il titolo (essendone priva) Ti rendo grazie, l'autore esprime riconoscenza al nipote Peppino Brunetti, che gli ha fatto dono d'un succulento arrosto:
«Abbiam mangiato il bell'arrosto/ L'abbiam gustato, s'è messo a posto;/ Speriam le cose per l'avvenire/ Saran più liete, per poi gioire».
Nella nostra epoca di ricchi epuloni tali versi possono indurre i più all'ilarità. Scomodarsi a dire grazie, addirittura in rima, per un banale arrosto? Cose d'altri tempi! (o da altri tempi, senza apostrofo, come ama scrivere Gianni Custodero). Ne aveva di ore da perdere Don Filippo, commenterà qualcuno con sarcasmo. E già! Noi, figli del terzo millennio, non abbiamo tempo per la gratitudine, per il bon ton, per i sentimenti, divenuti ormai un optional del vivere civile.
Il componimento donfilippiano piace per ciò che manifesta. Il sacerdote è a letto ammalato, colpito da un male incurabile. La nipote Carmela (figlia della sorella di lui, Rachele, e di Ignazio Di Tano; consorte del già citato Giuseppe Brunetti) lo assiste. In famiglia si stanno vivendo momenti di dolore e tensione. Le altre nipoti Ida e Renzina (sorelle di Carmela) sono state colpite da lutti, e i loro genitori si sono separati. L'epoca, avara in tutti i sensi, è contrassegnata da ristrettezze spesso insostenibili. In questa cornice poco consolante fa bella mostra di sé «il bell'arrosto» di cui scrive il prete-poeta. Il profumo della sapida carne ha il magico potere di riattizzare le forze di Don Filippo e di placare per un momento l'angoscia dei suoi familiari. Lo stomaco «messo a posto» ha anche il potere di infondere speranza nei cuori:
«Non sgomentiamo, facciam coraggio/ Che s'avvicina per noi il bel maggio,/ Siccome è il mese di Poesia,/ Di belli fiori, grati a Maria».
Da qui, a brindare col vino “particolare” dei vigneti silvani, il passo è breve: «Beviamo il vino noi tutti adesso/ Leviamo i cori noi da quaggiù,/ Dicendo sempre: viva a Gesù!».
Di tutt'altro tono tre componimenti, sempre in lingua, dedicati ad altrettanti confratelli nel sacerdozio: don Tommaso Colucci, uno dei fratelli Patronelli (presumibilmente don Ciccio) e don Francesco Palazzo, nei quali il Bonifacio si rivela efficace ritrattista. Del resto lo stesso prof. Giuseppe Marangelli aveva riconosciuto a Don Filippo questa qualità a proposito della poesia dialettale Ricord Luc Seminarist, definita «un piccolo capolavoro» (cfr. G. Marangelli, Dodici poesie “dialettiche” di Don Filippo Bonifacio e ancora una..., in Fasano-Rivista di Cultura n. 7, Schena, 1983).
Altrettanto belle sono le tre poesie inedite che oggi pubblichiamo. Nella prima, intitolata Tommaso Colucci, la graffiante penna del Nostro ci rappresenta un Don Tommaso «gonfio qual istrice», dall'«aria di santarello», che s'ingrazia il vescovo con «profondi inchini». Gli schizzi iniziali vanno via via a ricomporsi in un nitido quadretto dalle tinte vivaci: «Si crede classico/ In scienze e stili» (un letterato insomma), «Son col Vicario/ Due maghiarili» (qui allude presumibilmente a Don Coletto, fratello di Don Tommaso). E di seguito:
«Intanto il Vescovo/ Per suoi riflessi,/ Tiene il Capitolo/ In mezzo ai fessi».
Forse questa immagine sviluppa la misura dell'influenza giustiana nel poetare di Don Filippo. Sebbene l'apparenza sia scherzosa e satirica, la sostanza è sinceramente efficace. Sembra divertirsi, l'autore, a mettere alla berlina parte del clero; il suo sorriso sornione traspare da ogni parola e contagia davvero il lettore.
Nella seconda poesia, dal telegrafico titolo Patronelli, la malizia donfilippiana si placa. Gli piace questo «prete simpatico» anche se «un po' leggiero», «nemico acerrimo/ di Monsignore». Non è forse anche Don Filippo ostile al vescovo, il cui agire giudica non troppo consono ai dogmi di Santa Romana Chiesa? Del sacerdote Patronelli il Bonifacio esalta la bontà e l'umiltà: «è... tutto cuore/ non è superbo,/ un semplicione», proprio come insegna il Vangelo: «Beati i poveri di spirito, perché di essi sarà il regno dei cieli». A stemperare queste pennellate caratteriali, c'è «il ventre gonfio/ come un saccone», riferimento fisico avvalorante l'ipotesi che trattasi di Don Ciccio Patronelli, e non del fratello di lui, Don Vito, anch'egli sacerdote.
Concludono il ritratto altri apprezzamenti: «Non è fanatico/ Ma uom prudente». Quest'ultimo aggettivo contraddice il «leggiero» iniziale. Si può essere faciloni e nel contempo ponderati? Per Don Filippo pare proprio di sì.
Un costante intento canzonatorio informa, invece, i versi indirizzati A Francesco Palazzo. «Pochi scherzucci di dozzina», come Giuseppe Giusti amava definire i suoi versi satirici? O nello scolpire l'effigie di Don Francesco la satira del Bonifacio si tinge di acrimonia? Prete distratto, confusionario, con una dizione claudicante e, come se non bastasse, pure corto di memoria. Con queste “eccellenti” doti naturali, agli occhi dell'autore, il povero Don Palazzo va ad impinguare «quelle classi stupide/ di fessi o mighiarili». Segno particolare: il «ventre simpatico» che «somiglia alla grancassa,/ ci sembra donna gravida/ pulita e molto grassa».
Perché le pance gonfie dei suoi colleghi sacerdoti lo ispirano tanto? Gli infondono forse un senso di sazietà che lo mette di buonumore?
Nei dodici versi finali deflagrano lo sdegno e l'ira dell'autore. Motivo? La celerità con la quale Don Francesco è stato ordinato sacerdote: «Il sacerdozio rapido/ Che venne a te donato / Fu al certo errore massimo / Un olio assai sforzato», a denunciare la superficialità con cui spesso ci si avvicinava in passato al sacramento dell'ordine. E oggi? La situazione non pare sia cambiata poi tanto. Pur avendone le capacità, quanti hanno la vocazione?
Incalza il Bonifacio, sempre rivolto a Don Francesco:
«Potevi inoltre vivere/ E più contento stare/ I tuoi vigneti fertili/ Felice a coltivare./ Il mio consiglio fervido / Saria lasciar la cappa;/ Torna al tuo stato libero/ Pigliando in man la zappa», sottintendendo di lasciare ad altri il delicato compito di officiare messa.
Lesse mai il Patronelli queste rime? E se sì, come reagì? Tenne in debito conto i consigli di Don Filippo? O, smemorato qual era, se ne dimenticò?
Domande senza risposta. Intanto, gustiamoci qui di seguito i testi integrali delle quattro poesie inedite in lingua italiana che abbiamo presentato.
di Palmina Cannone
Tommaso Colucci
Gonfio qual istrice
Tommaso incede
Nunzio apostolico
Di Santa Sede.
Si mostra tumido
Col suo cappello;
Poi in Chiesa un'aria
di santarello.
Anch'egli trovasi
Tra i Beniamini
Facendo al Vescovo
Profondi inchini.
Si crede classico
In scienze e stili;
Son col Vicario
Due maghiarili.
Intanto il Vescovo
Per suoi riflessi
Tiene il Capitolo
In mezzo ai fessi.
Dall'olio crescere
Coi lor sudori
Oggi già veggonsi
Tra sommi onori.
Perciò si gloria
Tommaso bello
Seguace fervido
Di suo fratello.
Patronelli
Uomo politico
A dirvi il vero;
Prete simpatico,
Ma un po' leggiero.
L'è un solitario
In ogni corso,
Cercando cogliere
Qualche discorso.
Si mette a ridere
Gagliardamente,
Da uom frenetico
Ognun lo sente.
Nemico acerrimo
Di Monsignore;
Non è volubile,
Ma tutto cuore.
Non è superbo,
Un semplicione;
Ha il ventre gonfio
Come un saccone.
È molto critico
E intelligente,
Non è fanatico
Ma uom prudente.
A Francesco Palazzo
Caro Don Ciccio amabile,
Vai sempre tu distratto,
Perciò ti voglio esprimere
Il vero tuo ritratto.
Quando la Messa celebri
Non dai ai ministri fiato,
Per presto a te rispondere
Dall'uno all'altro lato.
Leggendo poi l'Epistola,
Ovvero l'Evangelo,
Stravolgi tu la sillaba,
Non si capisce un pelo.
Le tue cadenze ceteri
Che canti tu con l'asma,
Spesso in altre cadono
Note di ratma e casma.
Dov'hai tu presto e sùbito
Le tante lingue appreso?
Forse alla scuola araba
Tedesca, come ho inteso?
La tua persona suscita
Nel Clero un'imponenza,
È a tutti assai simpatica
La cara tua presenza!
Promette amore e palpiti
La mente tua procace,
In questi tempi acerrimi
Sei l'uomo della pace!
Sei fiacco di memoria,
Sempre col libro in mano;
Sembra un tale metodo
A ognuno troppo strano.
Rizzi la testa all'apice
Dal suo normale sito:
Vuoi forse il ciel raggiungere,
Ovvero sei stordito?
Tale maniera, credimi,
Ci mena a strani stili
A quelle classi stupide
Di fessi, o mighiarili!
Quel ventre poi simpatico
Somiglia alla grancassa,
Ci sembra donna gravida
Pulita e molto grassa.
Il sacerdozio rapido
Che venne a te donato,
Fu al certo errore massimo,
Un olio assai sforzato!
Potevi inoltre vivere
E più contento stare
I tuoi vigneti fertili
Felice a coltivare.
Il mio consiglio fervido
Saria lasciar la cappa:
Torna al tuo stato libero
Pigliando in man la zappa.
Selva 21 aprile '923
Ti rendo grazie
Ti rendo grazie, o mio Peppino
Del tuo presente già sopraffino:
In questa sera, tu in questi istanti
Hai consolato quei cuori affranti.
Io ti ringrazio da questo letto,
Serbar io debba con sommo affetto;
In tutte l'ore del viver mio
Per te innalzo preghiere a Dio.
Ci siam trovati di classi mesti
Tra queste ore, di tempi tristi;
Ma viva a Dio, non scoraggiamo,
Nefaste guerre noi sopportiamo.
Abbiam mangiato il bell'arrosto
L'abbiam gustato, s'è messo a posto;
Speriam le cose per l'avvenire
Saran più liete, per poi gioire!
Rachele e Ida già sono afflitte,
Ma passeranno coteste ditte:
Le cose andranno di bene in meglio,
E i vostri cori saran risveglio.
Già tutto passa, pure a Renzina
Sarà lontana la fiera spina,
Ci resta sola, col suo Di Tano,
Ma Iddio distende la diva mano!
Non sgomentiamo, facciam coraggio
che s'avvicina per noi il bel Maggio,
Siccome è il mese di Poesia,
Di belli fiori, grati a Maria!
Ho già finito con questo espresso
Beviamo il vino noi tutti adesso,
Leviamo i cori noi da quaggiù,
Dicendo sempre: viva a Gesù!
di
02/01/2016 alle 16:45:11
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