VERSEGGIATORE IN LINGUA E IN DIALETTO
Don Filippo, poesie sconosciute
da Osservatorio n. 7 -2002
Il sacerdote don Filippo Bonifacio, nato a Fasano il 17 settembre 1857 e deceduto nel 1929, torna a far parlare di sé. Lo fa grazie alla signorina Marelda Iacovazzi, che per anni ha conservato di lui con religiosa cura numerosi componimenti manoscritti inediti, in vernacolo e in lingua italiana, e una farsa dialettale. L'amica Marelda, la cui magnanimità è nota, me ne ha fatto dono con la preghiera di analizzarli e divulgarli. A lei va il mio grazie caloroso, convinta come sono che il suo è un gesto considerevole. Le testimonianze della cultura di un popolo, infatti, non possono rimanere patrimonio privato, in quanto storia della comunità di appartenenza. Lo scorrere tra le mani i foglietti ingialliti vergati da don Filippo ha scatenato in me una ridda di emozioni. Mi sono ritrovata catapultata in un'epoca non mia, subendone prepotentemente il fascino misterioso. Il tormentone si è scatenato in seguito, nel tentativo di leggere e interpretare le poesie “filippiane”. L'impatto col dialetto arcaico dell'autore non è stato dei più felici. Sillabavo come quando, bambina, guidata da mia madre, mi sforzavo di dare un suono alle lettere stampate sul mio abbecedario.
Conosco tutte le poesie del Bonifacio pubblicate dal prof. Giuseppe Marangelli sulla rivista Fasano (n. 7, 1983, pp. 15-39, e n. 17, 1988, pp. 49-74, riprese, alcune, dall'Associazione “Iniziativa Dialetto” nella raccolta Fatte i paraule, Schena, 1999), ma trovarsi a tu per tu con alcuni originali “pezzetti” di carta, tenuti probabilmente in tasca da don Filippo insieme alla tabacchiera, è tutt'altra cosa.
D'indole sono caparbia e difficilmente mi arrendo. Più ostico è il problema e più provo un sottile piacere nel risolverlo.
Così, armata di salomonica pazienza, all'ombra dei pini silvani, tanto cari al Nostro, ho intrapreso il mio viaggio di lettura nell'opera poetica di un uomo che fu “personaggio” prima ancora che curato e verseggiatore. Penso che rimare, per lui, fosse una necessità vitale, un modo di raccontarsi e raccontare, di divertirsi e divertire. Prorompente la sua voglia di ingannare le ore trasformando in versi la monotonia del vivere quotidiano, costellato di fame e miseria. Gli era familiare il gusto provocatorio del parlare aperto, del chiamare le cose con il loro nome, di stupire per sollevare il velo dell'ipocrisia. Libero come uccel di bosco, non asservito ad alcuno, esternava il suo candore in apparenza disarmante. In realtà i suoi bozzetti, il suo vigore polemico contro il malcostume dell'epoca, sono ben determinati. Non vi nascondo che, paragonandoli al nostro tempo, mi pare di riscontrare impressionanti analogie. I suoi versi dialettali sono stati definiti «piuttosto rozzi, senza labor limae». A me piace caratterizzarli come “popolari”, nutriti di pianto e riso, di rabbia e cronaca. La sua scrittura si presenta mordace, burlesca, giocosa, «terragna», per usare un aggettivo preso in prestito da Gianni Custodero, che nel n. 7 della già menzionata rivista Fasano fa un'anamnesi lucida e perspicace di questo nostro prete che «forse giocava con se stesso a fare il poeta». La vena poetica di don Filippo – afferma Custodero con una metafora bellissima – «scende attraverso i nostri canaloni, elementare come la cialledda, ruvida come il vino contadino».
Certe battute grezze del Bonifacio possono infastidire chi, per inclinazione d'animo o per amor di eleganza, rifugge da talune espressioni poco levigate, divenute oggi pane quotidiano del dire e del fare. E in tal senso il simpatico don Filippo potrebbe essere considerato addirittura antesignano di questo screanzato modus dicendi moderno, che fa tendenza anche tra le “signore”. Prendiamo atto che lui è il rappresentante della realtà storico-sociale alquanto arretrata in cui visse e operò, a cavallo tra la seconda metà dell'800 e i primissimi decenni del '900.
Schietto e sincero, beffatore e ironico, pittoresco nel predicare, fu vicino – alla sua maniera – ai bisogni e alle vicissitudini dei parrocchiani, che rallegrava con le sue facezie. È anche vero, però, che contro alcuni di essi lanciò strali avvelenati: difettava, per temperamento o per scelta, di esprit de finesse. Nella produzione in lingua italiana si rivela verseggiatore più cauto, attento e contenuto, a tratti quasi immobile nella lingua e nella forma.
Questi nostri rivoli di pensiero servono a presentare al lettore quattro componimenti, sottolineo inediti, riportati in altrettanti riquadri in queste pagine: due in italiano e due in dialetto. Questi ultimi sono pubblicati nella versione originale, con il modo di scrittura dialettale usato da don Filippo: la relativa traduzione, inserita a fianco, aiuterà a superare qualche spigolosità vernacolare. Ognuna delle quattro poesie è accompagnata da brevi note di commento. Prossimamente ci addentreremo di nuovo negli inediti di Don Filippo, cantore fasanese, che, nonostante il tempo trascorso, attira ancora il nostro interesse.
Palmina Cannone
Nu viagg doloros alla Selv
U sabt du frid insignalat
Ghianib u mont già disturbat,
Tuccab a cim a u dolc purt.
Na mi sintay.
Arrivab ndu casin, ah minz murt!
Ghianan u mont, fasciav frid
Mi spirdisciern i curdilid;
Camminav sul a cum nu cuch,
Sculan vav, sidor e much.
Di Vit Sant vicin a caset
A tramuntan minav saet,
Na bot di vint, vicin u casin,
U cappid vulò cu u barattin.
Mu ci t'ha vist povr Don Filip
Sculan da u nas tabac e lip,
Rumanib triman, cu a leng assut,
Cu na man a i capid, e cap a nut.
Arrivab a u casin indrignulat
Stang e dimirt tut bagnat;
Cu cappid sculan, bagnat assè,
Che parav na pach di baccalà!
Dib na buccat di rum e rosogl,
Appiciab u fuch cu molt petrogl;
I scorv vird di rus e alì
Sintiv fragas di battarì.
A not ca a nav molt ha istait
Du casin a port hir fabbricat,
Cu a scop a sprusciab ecna palet
E fuscib nda chis a cum a saet.
Dop a mes, da chis assut,
Mi vidib ndu purt minz pirdut,
Turnab a Fascian, cum a ... (?)
Chin di nav, tra frid e pajin!
Traduzione
Un viaggio doloroso alla Selva
Il sabato del freddo segnalato
salii il monte (la Selva), già indisposto,
raggiunsi la cima del dolce porto.
Non mi sentivo bene.
Giunsi alla mia casina, ah, mezzo morto!
Salendo il monte, faceva freddo
mi si intirizzirono le giunture;
procedevo solo come una civetta,
sbavando, sudando e col naso gocciolante.
Presso la “casedda” di Vito Sante
la tramontana soffiava gelida,
una folata di vento vicino alla casina
e il cappello volò col berrettino.
Se ti vedesse qualcuno, povero Don Filippo,
colando dal naso tabacco e moccio!
Rimasi tremulo, con la bocca secca,
una mano ai capelli, e il capo scoperto.
Giunsi alla casina infreddolito,
stanco e depresso, tutto fradicio,
con il cappello gocciolante, bagnato assai,
tanto da sembrare un pezzo di baccalà.
Diedi un sorso di rhum e rosolio,
accesi il fuoco con molto petrolio;
le fascine verdi di corbezzoli e ulivi
scoppiettavano come fuochi d'artificio.
La notte, poiché era caduta tanta neve,
della casina la porta era murata:
con la scopa e con una paletta la rimossi
e in chiesa mi precipitai come un fulmine.
Dopo la messa, dalla chiesa uscito,
mi ritrovai nel (silvano) porto smarrito,
tornai a Fasano, come ... (?)
coperto di neve, tra freddo e pene!
La composizione è simile a quella senza titolo dettata a memoria al prof. Marangelli da Vito Schena, droghiere in via Fogazzaro. Marangelli la intitola U Sabbete Sante 'nzegnaläte (è riportata nel n. 7 della rivista Fasano). Le analogie tra le due poesie sono evidenti, con una differenza. In quella che presentiamo qui sopra, manca l'esilarante descrizione del viaggio di ritorno di don Filippo dalla Selva a Fasano, presente invece nella versione orale. Perché il manoscritto è monco di cotanto umorismo? Fu lo stesso curato ad ampliare una prima bozza, o fu invece il popolo a prendersi la licenza di pennellare quella composizione con frizzi e lazzi? Non è forse vero che sulle orme dell'effervescente don Filippo i fasanesi si sollazzavano a fare i “poeti”? Comunque, al di là di queste disquisizioni, il testo offre un'efficace e immediata rappresentazione dello stesso autore e del paesaggio silvano. (Nota: il punto interrogativo indica una parola illeggibile nel manoscritto).
Alla signora Adelina Italia Mele
pel suo primo parto
(sonetto)
Non vedesti, o Adelina, nascer più bello
Dei tuoi verd'anni, né più fausto il giorno!
Perché di madre al palpito novello
Senti oggi il cor di un altro affetto adorno.
Di madre il gaudio è dell'amor suggello
Che dolce della terra fa il soggiorno:
Né mai la vita è di dolore ostello
A chi di amor l'eco risuona intorno.
Ma se madre oggi sei, pensa che figlia
Ancor tu sei d'Italia, e Italia aspetta
Veder di eroi completa la famiglia.
Sappi adunque stillar la benedetta
Carità che la patria a noi consiglia;
Ed anche a Dio sarà tua prole accetta.
Un inedito don Filippo firma questo delicato sonetto (componimento lirico costituito da 14 versi endecasillabi) a rima alternata per omaggiare la primipara Adelina Italia Mele, consorte di Carlo Florenzo Rodio. Eloquenti i due versi in cui è ben temprata l'idea dell'amore: «Né mai la vita è di dolore ostello / A chi di amor l'eco risuona intorno». Nel mondo non alligna la sofferenza, se è l'amore a pilotare l'umanità. Nell'ultima parte questo sentimento universale si fa patrio. Rivolgendosi affettuosamente alla neo-mamma, da saggio curato, la esorta perché inculchi nella prole la carità e il rispetto per l'Italia, bisognevole di figli-eroi.
Ascinnut di fascianis
A villeggiatur ha già finut,
Tut u cundurn si n'ha scinnut;
A gè rummas i sul a cum nu cuch.
Pizch tabac, e mi serch u much.
Trasen ottobr, hi stat nu fat,
S'ha ni scappat a cum i gat:
Lascin a Selv, chi arr pur,
Pi sci a mal'arr, tra fiz e rimur.
Hi stat cus an nu cas stran
Si n'ha niscinut subt a Fascian;
Ha fat stun tra chis sciurnat
Ca par nda Selv, u timp di stat.
A fin di giugn na pens a dilur
Lascin l'affar, pa villeggiatur,
Ma arrivat ottobr fra i set o lot,
si ni scen di fret, i pigh na got.
Discin talun: avim ceffè
A' rivat u timp, na m'ha calè,
Disci mis a Fascian a fè turnis,
E i struns alla Selv tut int u pris.
Abbascij u purc da Selva nost,
Mu von a Fascian già cost cost,
I marit fascin cu i migghir lit,
Ca scinnut u pais s'acche pintit.
Dò, a chij sciurnat ti vin a lan,
Si pizzicat da molt zamban;
Mangian du purc a carn ch'è lent
Von tut spis a sciugliment.
I propr disdaz di chuj pais,
Sò tut amant di fè turnis,
Na pens nisciun husci pi crè,
A met u cumbas pi sparagnè.
Si nà niscinnut sò tut biat,
Ston a Fascian ha na difrischat;
I stoch dò a lengg mi lech,
I Fascianis s'affanne nu pech!
Traduzione
Il ritorno dalla villeggiatura dei fasanesi
La villeggiatura è già finita,
tutto il vicinato è rientrato (in paese).
Sono rimasto solo come una civetta;
fiuto tabacco e mi soffio il muco.
Entrando ottobre, è accaduto un fatto,
via son fuggiti come i gatti.
Lasciano la Selva, dove l'aria è salubre,
per tornare all'aria malsana, tra puzze e rumori.
È successo quest'anno un fatto strano
(i villeggianti) son rientrati subito a Fasano;
(ciò) ha meravigliato per queste (belle) giornate
che alla Selva sembra ancora estate.
Alla fine di giugno non pensano ai guai,
abbandonano gli affari per la villeggiatura,
ma, arrivato ottobre, fra il 7 e l'8,
rientrano in fretta, son presi dalla foga.
Dicono taluni: abbiamo impegni,
giunto il tempo, dobbiamo scendere (in paese),
dieci mesi a Fasano ad accumulare soldi,
e gli stronzi (guadagni) alla Selva, tutti nel càntero.
Abbasso il porco della Selva nostra,
ora rientrano a Fasano tenendosi a bordo strada,
i mariti litigano con le mogli
che del ritorno in paese si pentono.
Qua, con queste giornate ci si annoia,
sono punti da molte zanzare,
mangian del maiale la carne che è grassa,
son tutti spesso colti da dissenteria.
È proprio cattiva abitudine di questo paese,
son tutti amanti di arricchirsi (per poi sperperare),
alcun non pensa all'oggi per il domani,
a mettere il freno per risparmiare.
Sono rientrati, son tutti contenti,
stanno a Fasano, si sono rasserenati.
Io sto qua (alla Selva) a leccarmi la lingua,
e i Fasanesi s'affannano un poco!
In questo Ritorno dalla villeggiatura Don Filippo traccia un sardonico quadretto delle abitudini estive del popolo di Fasano. Verso la fine di giugno tutti vengono presi dalla “smania per la villeggiatura” di goldoniana memoria. Migrano dal paese per trovare refrigerio in collina. Agli inizi dell'autunno, però, nonostante le meravigliose e calde giornate ottobrine invitino a prolungare le vacanze, intraprendono in fretta il viaggio di ritorno, allettati da impellenti affari. Anche in questa composizione dialettale, come in quella presentata nelle pagine precedenti, ricorre l'espressione «sul a cum nu cuch», a sottendere il peso della solitudine che gravava su don Filippo quando non era in compagnia. Da notare, infine, un modo di dire tipico dell'epoca: «Abbasc u purc da Selv», a indicare a lüffe, la baia, cioè l'irrisione data ai villeggianti che abbandonavano la collina da chi, al contrario, vi rimaneva ancora per qualche settimana o anche più.
Nel dì del Battesimo della prima
neonata dei signori coniugi Carlo Florenzo Rodio e Adelina Italia Mele
(sonetto)
Vogliam baciarti, o tenera Bambina
Or che su te la sacra onda è discesa,
Che per mistero di virtù divina,
Tutta bella e di Dio figlia ti ha resa.
D'una mistica luce peregrina
Già splendi in seno della madre Chiesa,
E fin dal cielo innanzi a te s'inchina
L'Angiol che fia tua guida e tua difesa.
Deh cresci, o Bimba, all'amor dolce e santo
Dei genitor che allieterai sovente
Di tua gentil carissima presenza!
E della vita tra le lotte e il pianto
Mai non fia che di colpa il soffio algente
In te spegna il fulgor dell'Innocenza!
In questo secondo sonetto, scritto nella medesima circostanza del primo, è l'uomo di Dio a rivolgersi alla neonata, e non tanto il poeta. Dovendo continuare a dare di sé un'immagine contegnosa, don Filippo s'imbriglia, a mio avviso, in un artificioso accademismo nel quale annega quella naturale semplicità che è l'elemento cardine del suo poetare in dialetto. Resta, comunque, l'evidenza dei pensieri, l'armonia strutturale, un po' meno la liricità della composizione.
nella foto:
Selva di Fasano, 29 settembre 1926, festa di San Michele. Al centro: don Filippo Bonifacio con le mani poggiate sulle spalle del chierichetto. Da sinistra a destra sono riconoscibili i sacerdoti: don Giuseppe Lorussi, poggiato sul bastoncino; don Tommaso Colucci (dietro don Filippo); don Vito Patronelli (sul fondo) col fiocco di canonico che pende dal cappello; (ultimo) don Francesco Potenza. Altri personaggi individuati, in ordine sparso: Gennaro Patronelli; Leonardo Potenza, alias “La Vacca”; Pietro Decantis, soprannominato Verrüzze; don Giovanni Goffredi; don Pietro Pepe; Donato Pentassuglia alias “L'Africano”; Domenico Fanizza; Donato Guarini; Gerardo Albanese; Angela Crovace (madre di Gerardo); Coletto Fiume; Cataldo L'Abbate, rinomato macellaio con bottega in corso Garibaldi; il piccolo Michele Brunetti, che gentilmente ci ha fornito l'istantanea, in braccio al papà Giuseppe, parente di Don Filippo.
(Questa fotografia è stata pubblicata dalla rivista Fasano nel n. 5 del 1982, a corredo dell'articolo La festa di San Michele di Giuseppe Marangelli, che ha provveduto ad illustrarla ampiamente). (Archivio Foto Indiveri)
di
02/01/2016 alle 12:20:29
Leggi anche:
Macelleria Peppino De Leonardis
Carni e prodotti freschi e alla brace
La storica macelleria De Leonardis con fornello pronto tutte le sere