“AMARCORD” NELL’EDIFICIO DI PIAZZA MERCATO
Sotto la scuola c’erano le stalle
da Osservatorio n. 2-2002
Dopo anni, certamente tanti, un lunedì mattina, alle 8 in punto, mi trovo a risalire le scale dell'edificio di piazza Mercato che ospita parte del locale Istituto Alberghiero, sito in via Fratelli Rosselli. La mia classe è impegnata nella pratica di cucina e sala-bar, per cui dalla scuola centrale ci siamo spostati ai Portici.
L'onda dei ricordi
Rivedo quegli scalini sconnessi, incupiti dalle migliaia di calpestii di ragazzi che nel tempo li hanno strapazzati, martoriati, consunti. Per qualche recondita ragione, che al momento sfugge al mio intuito, mi sento smarrita... confusa.
Un'alchimia indefinita capovolge pensieri e realtà. L'angusto androne, o meglio sottoscala, una volta adibito a fatiscente palestra, si anima: una spalliera fissata al muro, attrezzi ginnici sparsi alla rinfusa. L'insegnante mostra alle allieve un esercizio più complesso dei soliti eseguiti fino ad allora dalla scolaresca. Una timida bimbetta, dalla lunga treccia castana, s'arrampica con impegno sui pioli di quell'arnese a forma di scala. Vedo arrossire le sue guance contratte. Per lo sforzo? Per qualche appunto della professoressa? Non so. Un olezzo di frutta matura, proveniente dai vicini magazzini, inonda l'olfatto.
I ricordi si accavallano, fendendo il tenebroso itinerario della memoria. Recupero faticosamente lembi di vita... la mia. Frammenti della mia preadolescenza si ravvivano. Le mie compagne di classe sono là, in fila sulla “linea di base”. Eccone una dalla zazzera di riccioli neri; l'altra pronta a sfoderare l'innato humour; e la famelica del gruppo, occupata ad addentare di soppiatto un robusto panino farcito con la mortadella. Via via tutte le altre scorrono, una ad una, lungo il fiume della reminiscenza. Ecco ricomporsi la classe 1ªB femminile (anno scolastico 1958-59) della locale Scuola Media di Stato, alla quale si accedeva previo esame di ammissione (divenuta in seguito Scuola Media “G. Pascoli”, e, a partire dall'anno scolastico 1962-63, scuola dell'obbligo).
Ritorno al presente
«Prof, si è incantata?» mi fa un alunno, riportandomi di colpo alla concretezza delle incombenze quotidiane (anno scolastico 2001-02).
Continuo a salire, salire quelle ripide scale. Ansimo. «Forse l'età?», mi chiedo. No! Non è il tempo recalcitrante che mi ha depredata della vis giovanile. È una sorta d'intontimento che intimidisce il respiro. Sono stordita, ma cosciente. Mi sovvengono i versi di Montale: «La storia non si snoda/ come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso/ molti anelli non tengono/. La storia non contiene / il prima e il dopo,/ nulla che in lei borbotti/ a lento fuoco/ ... si sposta di binario/ e la sua direzione/ non è nell'orario/». Neanche la mia storia – credo – si colloca nell'orario odierno. In classe procedo all'appello: An..., Ant..., Barl... Presente... Assente..., rispondono gli studenti con voce cantilenante. Alla lettera zeta... mi fermo.
Indietro tutta
Stessa aula gelida e cadente, medesimo giorno, identica ora. Difforme il registro, che riporta il mio nome nell'elenco delle alunne. Sono, infatti, in 1ªB. Domina nella classe, dilatata dal ricordo, un silenzio sovrumano. In cattedra, la docente di lettere P.P. nel suo ancestrale look preso in prestito da “Caron dimonio”. Con tono autoritario e cipiglio truce si accinge a dettare la versione di latino che, di lì a poco, noi andremo a tradurre. È il primo compito in classe del secondo trimestre (all'epoca la lingua latina si studiava fin dalla 1ª media). La solerte insegnante, nata a residente in quel di Ostuni, ha scelto il brano con diligente cura, la domenica precedente, dì di festa per gli altri, non per lei. Ci sono tutte le eccezioni delle prime tre declinazioni, forse anche qualcuna in più; costrutti contorti di enigmatica interpretazione; oscuri aggettivi di prima e seconda classe; e, come se non bastasse, mine vaganti ovunque, lungo l'ostico iter della traduzione. Il livore sui nostri visi ancora infantili (qualcuna, come me, ha appena 10 anni, avendo fatto la primina) s'intensifica, gravido d'ansia e timore, man mano che la dettatura procede. «Dei militum fatum monstrabunt si aruspices cum cura in extis responsum...» tuona la professoressa.
Poi... all'improvviso, tra un vociare indistinto, un grido si leva dal sottostante mercato del pesce; grido nitido, veemente, che va a rompere il rituale quasi perverso della cinica “tortura” latina. «U pésce, u pésce d'u märe nuste! – scandisce la voce – Vupe, aléisce, pulpetidde, allìive, calamarìdde» (il pesce, il pesce del nostro mare: vope, alici, polipetti, seppioline, calamaretti). Per noi fanciulle, distrarsi e abbozzare risolini, subito smorzati, diventa inevitabile. Stizzita, la docente, dal viso sempre più “biliare”, ordina di chiudere «immediatamente» la finestra, perché giammai l'ignoranza del popolo osi contaminare la purezza della conoscenza classica.
Ahimè! Il danno, però, è fatto. L'attenzione della classe cade in pezzi. Ci liberiamo dalle opprimenti “catene” didattiche, lasciandoci coinvolgere emotivamente dalla vita che viene da fuori. Ebbre, sogniamo distese di acqua turchina, limpidi abissi marini, siti lontani. Dura poco, appena una frazione di secondo, la goduria.
Sotto la minaccia di una rovinosa nota sul registro, riprendiamo svogliatamente ad eseguire il compito di latino.
Rientro nella realtà
I fotogrammi del passato si dissolvono. Mi affaccio alla finestra dell'aula e resto delusa. L'eleganza austera dei negozi allogati sotto i Portici ha spazzato via pescivendoli, verdumai, fruttivendoli che, per decenni, hanno colorato con vivacissime cromìe la nostrana agorà. Mi mancano terribilmente i suoni, i bozzetti brulicanti di energia pratica, i discorsi intrisi di saggezza popolare di un tempo. Riprendo il ruolo di docente, e invito gli studenti a guardare la piazza, a percepire voci narranti che arrivano da lontano. Raccontano storie vere di popolo e, perfino, di donne monache che il 3 maggio 1694 si insediarono, con grande solennità, nel Monastero di San Giuseppe, parte del quale è occupata appunto dall'Istituto Alberghiero.
«Volete sapere cosa c'era sotto la nostra aula?», chiedo ai ragazzi con una certa titubanza. Rincuorata dalla risposta affermativa, mostro loro il cabreo del 1750, relativo ai beni immobili (le case) delle succitate suore, e, apertolo a pagina 110, leggo il titolo Camerone de' bovi e stalle dietro al monistero verso i monti. Stranamente gli alunni paiono interessati, perciò proseguo nella lettura.
Le stalle del monastero
(trascrizione inedita)
«Le stalle dei bovi e dei cavalli sito dentro il cortile di dietro il Monastero verso i monti, consistenti in un camerone sottano lungo palmi 60, e largo palmi 18 con volte a lamia, edificato per commodo e ricetto dei bovi del Monastero, essendovi dentro otto mangiatoie per detti bovi. Tiene il suo camino, o sia focolajo per commodo dei gualani, che assistono a governare i bovi la notte. Questo camerone sta attaccato alla muraglia di detto cortile, che sta verso i monti. Attaccato a detto camerone verso tramontana vi è un'altra camera grande sottana coverta con volta a lamia, edificata per commodo di conservarvi la paglia per la provvista dei bovi, e dei cavalli del monastero. Contiguo a questa pagliera verso mare vi sta parimenti un'altra camera sottana grande, coverta con volta a lamia, edificata per commodo di tenervi li cavalli del Monastero. La predetta stalla fu edificata dal Monastero nell'anno 1724 per commodo e ricetto dei cavalli e vi si spesero ducati 70 dal deposito delle doti... Il camerone insieme alla pagliera già descritti furono edificati dal Monastero nell'anno 1727 per il commodo dei bovi del medesimo monastero, e vi furono spesi ducati 125, e grana 94 per calcina, tufi, e lavorìo dei Mastri fatto nell'edificio di detto camerone, e pagliera, e ne porta l'esito il Rev. Don Francesco Paolo Cariello Procuratore dei Conti di settembre 1726 in agosto 1727 cioè ducati 12.50 per venticinque carrette di calcina...; docati 38.10 per seimila tufi e centodue pezzi...; ducati 75.34 per la fatiga dei Mastri».
«Quelle antiche stalle – spiego agli studenti – descritte nel cabreo (collocate nel cortile, riconoscibile dal grande cancello di ferro che lo delimita), erano ubicate proprio sotto la nostra aula. Ai tempi della mia infanzia, invece, erano occupate dal mercato del pesce».
La campanella segna la fine della lezione.
Peccato – penso mentre vado via – che i miei insegnanti non abbiano avvertito mai, e sottolineo mai, la necessità di illustrarmi alcune pagine della storia patria. Un vuoto culturale pesante come un macigno, che la vecchia scuola non ha saputo o voluto colmare. Un vuoto che caparbiamente mi ostino a riempire, giorno dopo giorno, attaccata come sono alla mia terra e alla mia gente.
di PALMINA CANNONE
Nella foto:
Il cortile interno dell'ex Monastero di San Giuseppe, in piazza Mercato.
Da esso si accedeva, nel Settecento, alle «stalle dei bovi e dei cavalli»
di proprietà delle «donne monache». Nel secolo scorso, invece, fino agli anni Settanta, vi fu allocato il mercato del pesce (sotto la grande arcata che si vede sul lato destro). Intere generazioni di liceali fasanesi si sono affacciati alle finestre delle loro aule “godendo” di questa vista singolare, con i relativi “odori” e le urla dei pescivendoli. Negli ultimi anni l'edificio è stato sede dell'Istituto Professionale Alberghiero. (Archivio Osservatorio)
di Redazione
28/10/2015 alle 09:45:48
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