TRA PASSATO E FUTURO
Fasano è anche così
da Osservatorio n. 1-2002
Proponiamo il testo di una conferenza che Gianni Custodero tenne nel 1997 alla Selva per il Rotary Club. Chiamato a illustrare il tema Fasano è così, il giornalista e scrittore ne approfittò per fare una serie di considerazioni che vanno a completare il suo libro uscito da Schena proprio con quel titolo nel 1960 (e in nuova edizione aggiornata nel 1995). Si tratta di analisi, notazioni storiche, riflessioni e proposte che risultano di stringente attualità.
Il tema della serata, “Fasano è così”, è lo stesso titolo del mio primo libretto, riproposto di recente dall'ottimo Nunzio Schena in seconda edizione.
Naturalmente, non posso ripetere quello che ho scritto. Chi pensa che ne valga la pena può leggere, bello e pubblicato, il prodotto finito, qualche errore di stampa compreso.
Un nuovo capitolo, allora? Proviamo a costruirlo insieme, magari partendo da ciò che non è stato detto e scritto. È opportuna, intanto, una premessa. Vivo a Bari ormai da trent'anni: l'eco di quello che accade a Fasano arriva soprattutto attraverso telegiornali e giornali. Vista dall'esterno l'immagine della cittadina, che resta anche mia, appare tutt'altro che esaltante. Ripenso sempre, però, a una constatazione che l'arcivescovo di Bari ama ripetere nei suoi incontri con i giornalisti: fa più rumore un albero che cade dello stormire di fronde in un'intera foresta. Del resto, il bene, si sa, quasi mai fa notizia. Istintivamente rifiuto l'idea d'una Fasano violenta, da cronaca nera, da periferia pasoliniana cresciuta a dismisura, anche se so bene che non è più il tempo di quella dimensione-paese dove, per citare il poeta, «ha peso ancora il male e peso il bene», e dove ci conoscevamo tutti. Citazione per citazione, si può pure ricordare con Cesare Pavese che «paese è non essere mai soli», salvo a chiedere, poi, a Fasano, se, qui ed ora, questo accade ancora tra piazza Ciaia e via Forcella, viale dell'Artigianato e la zona industriale, il centro storico e le palazzine nuove e nuovissime tra le quali non riesco più a orientarmi. Certo, sarebbe interessante cercare di individuare un'identità socio-culturale della città, di coglierne quella che si potrebbe definire l'identità civica, ma non è argomento da conversazione al caminetto.
Crisi di crescita. In maniera molto - ma molto - superficiale, archiviando i luoghi comuni introduttivi di circostanza, si può tentare una diagnosi parlando di crisi sostanzialmente di crescita, ma condizionata da pesanti squilibri e da notevoli lacerazioni del tessuto sociale. Ma sarebbe un modo come un altro per svicolare intorno al problema. La verità è che la violenza sempre più diffusa, la droga o certi fenomeni di inquinamento della convivenza civile non possono esorcizzarsi con le formule. Purtroppo è anche con queste realtà che dobbiamo fare i conti. E non solo a Fasano. C'è chi, in vena di rievocazioni, comincerebbe la sua storia ricordando che in principio c'erano i soggiorni obbligati... Qualcuno, però, potrebbe obiettare che, per esempio, da queste parti il contrabbando di sigarette c'era anche prima. Il discorso, comunque, non può limitarsi a Fasano considerandolo un caso a sé.
Viviamo in un periodo di grandi incertezze e di inquiete attese, in cui tutto scorre troppo rapidamente mentre si assiste a processi di omologazione e di massificazione sempre più evidenti e decisivi. La tradizionale dimensione-paese è ormai naufragata, travolta dall'effetto periferia urbana. I nuovi quartieri sembrano tutti uguali, dovunque, e, in quello che è ormai il villaggio globale, teorizzato da Mac Luhan, la gente tende sempre più ad uniformarsi ai modelli imposti dai bombardamenti di immagini e dalle abitudini televisive. È chiaro che, a questo punto, ognuno può fare le valutazioni che crede: a insistere però su questo versante si rischia di avventurarsi su un piano inclinato tra scenari orwelliani.
Torniamo, quindi, a Fasano. La domanda più naturale, ma anche quella alla quale è più difficile rispondere resta una: che cosa è accaduto negli ultimi trent'anni? Non si tratta, certo, di fare un elenco di avvenimenti, di realizzazioni, di risultati o di occasioni perdute, ma di capire fino in fondo come e perché la tranquilla, paciosa direi, Fasano degli anni '60 è diventata così com'è.
Non c'è dubbio, prima di tutto, che è cresciuta molto, forse troppo, e in fretta. È stata, però, una crescita disordinata e disuguale. Qualcosa non ha funzionato, qualche riferimento è venuto a mancare, qualche certezza è entrata in crisi, come i vecchi modelli e le vecchie abitudini. È un po' quello che avviene in un organismo in via di sviluppo quando gli anticorpi non sono sufficienti a difenderlo da certe infezioni. È una spiegazione un po' confusa e discutibile, ma è l'unica che so dare.
L'agriturismo. Voltiamo definitivamente pagina e vediamo di parlare davvero di quello che non ho scritto nel libro Fasano è così. Possiamo cominciare dalle masserie. In questi ultimi anni si sta assistendo a una riscoperta a tutto campo anche in coincidenza col successo dell'agriturismo. Le masserie dell'agro fasanese le conosciamo - se non tutte almeno... qualcuna -, e sicuramente molti ricordano almeno i suggestivi fascicoli curati da Pietro Marino che hanno accompagnato La Gazzetta del Mezzogiorno qualche anno fa. Basta una scampagnata, del resto, per rendersi conto che c'è sempre qualcosa da vedere o rivedere. Si può andare da Maccarone, che s'innalza come una cattedrale e annuncia la stazione a chi viene in treno da Bari, alla Minerva, legata al ricordo di Ciaja, da Ottava Piccola alla Difesa di Malta, da Marzalossa a Pettolecchia, dalla masseria Amati con il museo dell'olio, fino a Gianecchia che riecheggia il nome del dio romano bifronte ma fa pensare anche alla pietra pregiata, una delle risorse del nostro territorio da non sottovalutare. In questo arcipelago, attraversato da secoli di storia vissuta, si ritrovano angoli che rievocano altri tempi, scorci da acquerello o fregi e ornati d'un barocco a misura d'uomo. Tra le testimonianze di un passato molto spesso trascurato si può pure cogliere qualche segnale per il futuro. Si è accennato all'agriturismo. Da qualche anno sono state avviate iniziative notevoli, degne della massima attenzione. In prospettiva credo che proprio su questo terreno si giochi l'avvenire del turismo da queste parti. Nella rivista Fasano, prendendo lo spunto dal mio ritorno alla Selva, ho tentato una sorta di dossier o, piuttosto, di “quaderno di doglianze” (traduco al meglio così la definizione francese per scritti del genere). Sottolineavo, tra l'altro, l'esigenza di un progetto organico e globale per l'intero territorio, dalla collina alla marina, e la necessità di puntare sull'iniziativa privata per realizzarlo o, almeno, per promuoverne e avviarne l'attuazione. Ma sollecitavo, soprattutto, un dibattito costruttivo, con proposte concrete, magari con dissensi e critiche. Mi auguravo, comunque, che si discutesse seriamente sul da farsi. Purtroppo, è stata una predica nel deserto. Nonostante il richiamo e l'invito anche dell'Osservatorio, ho avuto l'impressione che i lettori più direttamente interessati abbiano scambiato le mie annotazioni per una divagazione letteraria. Diversamente, dovrei concludere che a Fasano la gente, come il Candide di Voltaire, vive nel migliore dei mondi possibili e non ha nessun motivo per preoccuparsi del futuro.
Feudi e feudatari. Chiusa la parentesi e chiedendo scusa per lo spunto polemico, torniamo ancora una volta al mio libro. Forse avrei dovuto dire qualcosa su Montalbano vecchia, sul singolare villaggio di monovani con i tetti spioventi che richiamano alla lontana le “cummerse” di Locorotondo, magari ricordando pure che la zona apparteneva agli Acquaviva d'Aragona, conti di Conversano e duchi di Nardò.
In tema di feudatari, un capitolo da approfondire sul versante che ci riguarda è quello legato alla storia dell'abbazia-fortezza di Santo Stefano, nei cui domìni rientravano Fasano e Putignano. Può essere interessante un giro d'orizzonte nei centri vicini. A Martina, per esempio, i Caracciolo hanno lasciato il palazzo voluto dal duca Petracone V e costato 60 mila ducati, una montagna di denaro nella seconda metà del '600. Ma è sopravvissuto pure il ricordo degli scontri con i professionisti, i possidenti, il clero e gli artieri, le forze vive, cioè, di una comunità che lavorava e contava, ma, soprattutto, non aveva dimenticato di essere nata Franca ai tempi degli Angioini. A questa lotta secolare un antico avvocato, Antonio Cofano, ha dedicato un'appassionata ricerca (Storia antifeudale della Franca Martina è il titolo). Qualcuno avrà notato che il San Martino a cavallo, sulla porta che immette nel centro storico, volta le spalle al palazzo: è una testimonianza a futura memoria del clima che qui si è respirato per secoli.
Degli Acquaviva d'Aragona, a Conversano, restano il castello, le tele di quelli che sono stati definiti i “pittori del Guercio”, ma anche la tradizione che fa di questa cittadina un significativo centro di cultura. Rimane soprattutto Alberobello, costruita a trulli nell'antica selva dove il conte andava a caccia, in una singolare quanto esemplare frode fiscale, visto che sui rifugi dei contadini non c'erano tributi per il re di Spagna. Nel rovescio della medaglia ci sono pure i canonici di Nardò trucidati nella repressione dei moti del 1648 e le famose poltrone foderate di pelle umana, che non sono un'invenzione di Fantozzi: se ne sono, infatti, occupati memorialisti e storici locali, ne ha scritto persino Curzio Malaparte, anche se nessuno le ha viste. Che altro? Cisternino era feudo dei vescovi di Monopoli, mentre Castellana era sotto la giurisdizione della badessa di San Benedetto di Conversano, che aveva anche funzioni vescovili e, con mitria e pastorale, riceveva l'omaggio del capitolo castellanese fino a quando questo monstrum Apuliae fu cancellato con l'abolizione della feudalità. A Fasano, demolito lo storico palazzo dei balì con le arcate, la cui immagine rivive in un quadro di Ferdinando Schiavone, rimangono l'arco del cavaliere, gli stemmi nel muro superstite che si affaccia su piazza Ciaia e qualche croce di Malta, come quella sulla facciata della chiesa Matrice. Se proprio si vuol frugare nelle memorie, si può aggiungere che la famiglia di Ciaja sarebbe venuta da Siena per un antenato del futuro protagonista dell'avventura repubblicana del 1799 impegnato nell'amministrazione del baliaggio. Si ha l'impressione, però, sia per Fasano che per Putignano, di una non comune vivacità di iniziative, di un'economia in cui si annuncia per tempo un embrione di classe media, con operatori che non sono né contadini, né massari, né signori: artigianato e commercio cercano e trovano spazio in un contesto in cui, evidentemente, c'è maggiore respiro rispetto a quello lasciato altrove ai sudditi di duchi, conti e baroni. Una conferma forse potrebbe essere cercata pure nel frazionamento addirittura eccessivo della proprietà fondiaria anche nella marina. Il discorso, però, andrebbe approfondito e documentato: potrebbe essere argomento per una tesi di laurea.
Sempre nel campo della ricerca storica, bisognerebbe trovare una risposta pure al perché Fasano, drammaticamente coinvolta nelle vicende del 1799, è «neutrale» nel referendum del 1861 per l'annessione del regno delle Due Sicilie a quello sabaudo, come si legge in un documento pubblicato dal Lucarelli. Lo stesso fatto che il paese, “Orso Fatuo” a parte, è stato, sostanzialmente, appena sfiorato dal brigantaggio vorrà pure dire qualcosa.
Corso di S. Antonio. Mi rendo conto che diverse altre cose da scrivere su Fasano sono rimaste nella penna o, se vogliamo, nel computer. Nel mio volumetto c'è, per esempio, una pagina dedicata a corso Garibaldi; un'altra nota dalla stazione, pure pubblicata ne La Gazzetta del Mezzogiorno tra l'82 e l'83, s'è perduta tra le mie carte. È appena citato, invece, corso Vittorio Emanuele - per i vecchi più vecchi, il corso di Sant'Antonio - col Caffè Unione all'angolo della piazza, la facciata del Municipio di fronte, poi il Purgatorio, dirimpetto palazzo Bianchi dove abitava don Luigi, il padre di donna Maria Chieco Bianchi, prima e finora unica donna sindaco della nostra città ed unico deputato nel Parlamento della Repubblica nato a Fasano anche se fu eletta nella lista monarchica per il collegio Bari-Foggia. Qui i fili della memoria e del vissuto si snodano attraverso i lunghi percorsi ed i passi perduti delle serate, festive e non, per risalire nel tempo di quasi mezzo secolo. Da Cosimo Carparelli o dalle signorine Olive si leggevano i titoli dei giornali quando non c'erano le 20 o 25 lire per comprare il Corriere dello Sport o Cinesport; bastavano 10 lire, invece, per le figurine dei calciatori, omaggio addirittura per chi comprava un quaderno dal tabaccaio di fronte a Sant'Antonio. Qualche anno più tardi, l'appuntamento domenicale con la messa di mezzogiorno e con l'omelia di don Nicola Carbonara, parroco dopo don Sante Perna, il piccolo prete dal cuore grande come quella chiesa, che aveva voluto più grande e più bella recuperando persino qualche cella del carcere. Di don Sante nel mio libretto ho scritto poco: sicuramente meritava maggiore spazio la Casa Orfani alla quale è rimasto legato il suo nome nella memoria popolare. Almeno un paragrafo, poi, avrebbero meritato le realizzazioni di don Nicola, dal Villaggio del Fanciullo all'Eremo di Sant'Antonio Abate. Davanti alla chiesa, lo sguardo sfiorava appena le statuette e i motivi di decoro patinati di calce, di giallo e d'azzurro, nella facciata del singolare palazzo di fronte.
Un'altra pagina dovrebbe essere dedicata a via Forcella, eco lontana di Napoli capitale e strada di riferimento nello scacchiere della Fasano ottocentesca. Il richiamo si associa al ricordo delle processioni che l'attraversavano e continuano ad attraversarla, e dei Misteri, che fino agli anni '50 scandivano il Venerdì Santo dall'alba, con Cristo all'Orto, a mezzanotte, con l'Addolorata del Purgatorio.
Feste e banche. Un'altra annotazione avrebbe potuto richiamare l'abitudine fasanese alle feste, comandate, facoltative e adottive, da San Donato a San Lorenzo, da San Rocco con i locorotondesi ai Santi Medici ad Alberobello, il 27 settembre, quando nelle macellerie tornava il maiale.
Una volta c'erano pure i falò a San Giuseppe e all'Annunziata: chi li ricorda?
In Fasano è così ho accennato appena alle banche locali, la Fasanese, ora Ambroveneto, e il Credito Agricolo e Commerciale, ora Caripuglia, cioè Cariplo (oggi Carime, n.d.r.). Anche questo è un fenomeno da rileggere attentamente.
Consegnando i ricordi al passato, in una nuova edizione del mio libretto o in un nuovo libro su Fasano, dovrebbe trovare spazio adeguato pure l'Osservatorio, la bella rivista, professionale, vivace e sostanziosa, che ormai entra, ospite gradita, in tutte le case. Quest'estate, pochi giorni dopo l'uscita era già esaurita in tre edicole: scherzando, ma non troppo, con qualche amico ho detto che vorrei essere io l'editore...
Altra pagina dovrebbe riguardare la crescita, anche in qualità, della cultura musicale. Però, credo sia il caso soprattutto di pensare alla Fasano di un futuro ormai prossimo.
Ruolo da definire. Può essere interessante un dato: nella nostra città, tra il 1981 e il 1991 la popolazione è cresciuta di 3.342 abitanti. È l'incremento più consistente, anche in percentuale, rispetto ai Comuni vicini (Ostuni, Monopoli, Martina). Altri centri, e soprattutto la stessa Bari, hanno fatto registrare saldi negativi, addirittura pesanti per il capoluogo. Anche i numeri e i trends dicono qualcosa. Mentre la capacità di attrazione delle aree metropolitane più forti spinge a concentrare funzioni e risorse, il policentrismo che caratterizza la Puglia sembra reggere ancora. Il caso Bari non fa eccezione perché al vistoso decremento della popolazione in città ha fatto riscontro la crescita dei paesi ormai quasi raggiunti dai quartieri periferici del capoluogo, come Valenzano, Triggiano, Modugno e Bitritto, ma anche di quelli raggiungibili in un quarto d'ora d'auto, come Capurso e Adelfia, Turi e Casamassima. Nelle megalopoli del XXI secolo, però, accanto ai supermercati ci sarà sempre posto per le botteghe che puntano sull'alta qualità, come nella civiltà delle catene di fast food ci sarà sempre spazio per i ristoranti di classe e per la cucina casalinga. L'importante è, quindi, scegliere e definire esattamente il proprio ruolo. Lo è per le città come per ciascuno di noi, in una società che vuole specialisti sempre più qualificati e tende inesorabilmente a chiudere le porte in faccia ai generici e agli improvvisatori. Anche dalle nostre parti si è intuito questo passaggio obbligato mentre sono cresciute le piccole capitali, da Locorotondo per il vino bianco ad Alberobello per i trulli, da Noicattaro e Rutigliano per l'uva regina a Bitonto per l'olio.
Cerchiamo, allora, di prepararci a di non perdere tempo. Non possiamo, evidentemente, cullarci su un turismo da amarcord: i figli dei baresi e dei leccesi che venivano alla Selva andavano a Cortina o nel Trentino, i nipoti vanno alle Maldive, alle Seychelles o a cercare le nevi del Kilimangiaro. I tedeschi che vogliono il mare, se non si fermano a Rimini arrivano a Vieste o si spingono verso il Salento. È proprio questo il momento, quindi, per fare appello alla fantasia, all'industriosità e allo spirito di iniziativa che erano le risorse segrete degli artigiani di una volta. Concludo.
Nonostante tutto, sono ottimista: qualcosa accadrà. Allucescènne pruvvedènne, come dice il vecchio proverbio.
di GIANNI CUSTODERO
di Redazione
27/10/2015 alle 18:00:18
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