ALLA RISCOPERTA DI CIBI E SAPORI OGGI SCOMPARSI
Farro e cicerchie sulla tavola antica
Da Osservatorio n.8-2001
Le cicerchie, in dialetto fasanese nolche, dette anche “fave dei poveri”: erano il cibo di contadini e braccianti.
Ritornando indietro nel tempo fino agli ultimi anni Venti e all'inizio dei Trenta, fra i ricordi più vivi della fanciullezza e prima giovinezza vi sono anche quelli delle moltitudini di nostri braccianti, costretti dal bisogno a lasciare ogni anno per quasi due mesi, da giugno a luglio, la famiglia e il paese per trasmigrare verso le assolate terre della piana di Foggia e Cerignola, il Tavoliere delle Puglie, indicato comunemente come a Pügghie, teatro della “battaglia del grano” tanto propagandata dal regime fascista. Due mesi di duro lavoro, quello della mietitura a mano del grano, sotto i raggi infuocati del sole e poi l'avvicendarsi intorno alle grandi macchine trebbiatrici. Tornavano anneriti da quei raggi, e ricordiamo che, nei racconti di alcuni di loro legati alla nostra famiglia, ricorreva spesso la parola “farro”, un termine che incuriosiva noi ragazzi, tanto da chiedere spiegazioni ai genitori. Trattavasi di una pietanza, l'unica e monotona minestra quotidiana che veniva data a mezzogiorno e sera a quelle migliaia di braccianti. Eppure quella minestra semiliquida, una specie di semolino, a base di semola di grano duro (di cui l'amica Palmina Cannone ricorda la ricetta nel suo bel libro Sapori ritrovati 1), segno non certo di agiatezza e benessere, preparata in capaci caldaie nelle cucine di quelle masserie e versata ancora fumante coi mestoloni nei piatti di quei braccianti, portava un nome e un marchio di antica nobiltà storica. Il farro (dal latino far-farris), già presente in Omero, era infatti il cibo nazionale dei Romani, che lo adoperavano in cucina, sfarinato in minestra, oppure lo mangiavano abbrustolito in chicchi. Focacce di farro venivano dagli stessi Romani offerte agli dei nelle cerimonie religiose e pani di farro in occasione dei matrimoni (confarreatio). Inoltre il farro, un cereale oggi quasi scomparso, fu la più antica varietà di grano, coltivato dai pastori della Palestina, della Siria e dell'Egitto, un frumento vestito (triticum dicoccum) che cresceva specie nei terreni aridi e poco fertili. Ma, tornando al farro dei braccianti, ignoto alle nostre mense, era in quegli stessi anni a Fasano ancora presente su quelle dei più poveri e meno abbienti, che poi erano quasi tutti braccianti concentrati in quei rioni popolari intorno a via Adami, detta anche a sträde d'u pallàume. Pure, quegli anni non facili passarono, e qualcosa cominciò a cambiare. Ma alle soglie dei Quaranta arrivò la guerra, e dopo la guerra arrivarono la ripresa, l'Italia del miracolo economico e il benessere. E del farro si perdette anche la nozione, salvo il ricordo dei più anziani. Ma il farro, scomparso dalle mense pugliesi, quasi freudianamente rimosso quale simbolo di uno stato di miseria e povertà, da molti anni è ritornato in alcune cucine regionali del centro Italia ed in particolare di quella toscana, dove, insieme alla “ribollita” e alla “minestra di pane”, rappresenta uno dei cosiddetti piatti “poveri”, tanto apprezzati dai turisti stranieri che amano gustare i sani cibi di un tempo. Tutte cose che ci conferma il vecchio amico Torello Latini della celebre e omonima trattoria fiorentina, sotto il Palazzo Rucellai, un tempo frequentata da Montanelli, Spadolini e tanti altri scrittori e artisti. Il Latini ci ha anche detto che riesce ancora a fornirsi di farro originale presso alcuni contadini toscani che continuano a coltivarlo.
Le nolche. Ma, ritornando a quegli anni lontani, altri ricordi si riaffacciano. Era anche il tempo in cui “tramezzi” e terrazze delle nostre colline di Laureto di fronte al mare erano tutti ben coltivati dai contadini, che provvedevano anche a tenere in ordine i muretti a secco, essenziali per il mantenimento del terreno di fronte alle acque. Terrazzamenti dove, in mezzo ad olivi, mandorli, fichi e vivaci peri récchia false dai frutti rosseggianti (un paesaggio da vero sogno, se paragonato all'attuale degrado!) essi riuscivano a coltivare tutte le specie di legumi. Così, a ogni inizio d'estate, potevamo vedere nelle piccole aie davanti alle loro case diversi mucchietti ben ordinati e separati dei vari legumi da tempo raccolti e messi ad asciugare in mazzetti, con i baccelli pieni ancora attaccati al gambo, pronti per la “battitura” e successiva “ventilazione” manuale: ceci, fagioli, fave, lenticchie, fave lupini, piselli... tutti facilmente riconoscibili. Ma, accanto a questi, vi era anche un altro mucchio con rami e baccelli che noi ragazzi non riuscivamo a identificare e che suscitava la nostra curiosità, presto appagata dai contadini. Quei legumi per noi misteriosi erano indicati in dialetto come i nolche (in italiano le cicerchie), il più umile dei legumi, di cui molti ignorano perfino l'esistenza oltre al nome. Le nolche, anch'esse assenti dalle nostre mense, erano dette “fave dei poveri”, in uso per lo più presso contadini e braccianti che le cucinavano generalmente allo stesso modo delle fave in bianco, oppure come i ceci e fagioli in zuppa. Ma dal dopoguerra si è persa ogni traccia anche delle nolche, che non vengono più coltivate nelle nostre zone. E dobbiamo esser grati al giornale La Stampa, che in uno degli ultimi inserti scientifici ci ha informato della riscoperta di questo legume, umile ma “dignitoso”, originario del Medio Oriente, con una tradizione di largo consumo, apprezzato dai Greci e citato spesso dal noto scrittore latino di cose agricole Columella (I-II sec. d.C.). Lo stesso giornale informa che di questo legume ricco di vitamine A e B, calcio, fosforo e fibre, pochi grassi e molte proteine, la cui cultura si era ridotta in Italia da 15.000 ettari fin quasi all'estinzione, si sta tentando da qualche anno il rilancio con coltivazioni intensive. E tutto ciò nel quadro della recente rivoluzione dei gusti gastronomici seguita alla crisi della “mucca pazza” e della conseguente rivalutazione e riscoperta della cucina vegetariana a base di ortaggi e legumi, fra cui la ripescata cicerchia. Apprendiamo infine che il rilancio di questa cultura lo dobbiamo a un piccolo paese delle Marche, Serra de' Conti, dove un gruppo di contadini ha sempre continuato a seminare questo legume e dove ogni anno si svolge la Festa della Cicerchia, patrocinata dall'Università di Urbino. Complimenti, amici contadini di Serra de' Conti! Scriveremo al vostro sindaco per farci spedire qualche chilo delle antiche nolche. Intanto un amico di Locorotondo, dove ancora c'è qualcuno che le coltiva, ci ha fatto omaggio di nu misse de nolche2 che, sia pure con tanto ritardo, abbiamo potuto gustare per la prima volta. Meglio tardi che mai.
di Marzio Perrini
Note
(1) «Farro: ingredienti: lt. 1 di acqua, gr. 50 di olio di oliva, 1 cipolla, gr. 250 di farina di farro (oppure di semola di grano duro), 1 cucchiaio di sale, pane casereccio. Procedimento: mettete al fuoco un tegame e fate soffriggere nell'olio la cipolla affettata; unitevi quindi l'acqua e il sale. Appena il tutto bolle aggiungete lentamente, a pioggerella, la farina di farro, rimestando continuamente fino a quando il composto si addensa. Tagliate il pane a pezzettini, unitelo al farro, mescolate e servite con contorno di olive nere o peperoni sott'aceto».
(2) Un “misso” di legumi era la quantità sufficiente per il pranzo di una famiglia e solitamente veniva cotto nella tradizionale pignatta (a pegnäte) accostata al focolare con un coperchietto sopra.
di Redazione
25/08/2015 alle 17:33:58
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