CON IL TRASLOCO DELL’ULTIMA BOTTEGA DI FABBRO SI CHIUDE UN’EPOCA
Quegli artigiani sul ponte di via Roma
da Osservatorio n. 2 - febbraio 2001
Anni Sessanta: sono ancora in grande attività le botteghe artigiane di via Roma, nelle vicinanze del canalone e all’incrocio con via Taranto (oggi via Nazionale dei Trulli).
Gli anni dell'infanzia sono quelli che scolpiscono nella giovane mente una folla di ricordi: immagini, persone, avvenimenti, giochi, che, col passare del tempo, assumono una valenza importante per l'educazione di un soggetto che, pur sembrando distratto di fronte ad un presente lento e scandito, ha fortemente condizionato il cervello lasciandolo limpido per ricordare un particolare periodo della vita.
Nella prima metà dell'Ottocento la città di Bari fu colpita da una forte alluvione e l'acqua che precipitò dalla Murgia fu tanto abbondante e impetuosa che spazzò via molte case con notevoli perdite di vite umane. Un decreto regio obbligò tutte le città e paesi esistenti ai piedi delle Murge a realizzare dei canaloni ampi e profondi per proteggere da improvvise alluvioni gli abitati, con le case e i cittadini. Ancor oggi, arrivando a Bari, si nota un primo grande canalone subito dopo il Sacrario dei Caduti d'Oltremare, mentre il secondo lo si nota dopo la Fiera del Levante.
Anche Fasano fu costretta a costruire i due canaloni a protezione del centro abitato: il primo è quello che dalle antiche fogge corre per via Verdi e via Paisiello; l'altro è quello esistente alla fine di via Piave, che continua per via Risorgimento e scende verso via Roma e oltre.
La mia infanzia è passata nelle vicinanze del primo canalone e del “grande” incrocio tra via Nazionale dei Trulli, antica via Taranto, e via Roma.
Negli anni Cinquanta vi era un lampione sospeso al centro di quell'incrocio che permetteva a noi ragazzini di poter giocare indisturbati: le auto erano pochissime, e i rari camion annunciavano il loro arrivo con i fari e con una velocità tale da permetterci di recuperare pallone o bicicletta a cuscinetti e metterci al sicuro sui marciapiedi.
La sera le luci erano poche, come poche erano le case abitate in quella periferia. Il paese finiva vicino al “ponte”: oltre, vi erano gli orti con qualche casa abitata. Non c'era alcun movimento di gente, anche perché non vi erano case sottane, come in tutte le altre strade cittadine. Le case erano tutte “soprane”, perché i piani terra erano occupati da botteghe che, appena fatta sera, chiudevano i battenti lasciando la strada a noialtri per poter giocare.
Il mio “regno” era tutto lì, e il ricordo di quei tempi mi è molto caro ancor oggi. Vedendo l'ultimo artigiano rimasto chiudere i battenti dopo cinquant'anni, mi si stringe il cuore: mi ricordo i miei anni veri e la spensieratezza di quei tempi, quando mancava quasi tutto e bastava la lettura ad alta voce di mia sorella di un romanzo di Checov, attorno al braciere, per fare tutti contenti e andare a dormire soddisfatti e sazi di un peperone sottaceto con pomodori appesi e un po' di pane bianco appena acquistato dal forno di via Taranto.
Entrando in Fasano da Pezze, la prima bottega sulla destra era una falegnameria, quella di Angelo Legrottaglie, mèst Iàngele Chiavaridde, fratello del sacerdote don Antonio Legrottaglie che aveva formato tanti giovani nell'ambito dell'Azione Cattolica. Di fronte, una rimessa non utilizzata che era stata luogo di una tragedia nel 1946, quando era la stalla d'u Nèrve, e, per un incendio scoppiato all'improvviso, perirono due cavalli e due uomini entrati per salvare gli animali legati alle mangiatoie.
Dopo questa rimessa vi erano due locali occupati da mèst Véite d'a Stanziàume, Vito Caliolo, titolare di una delle più importanti officine che riparavano le auto, Topolino, Balilla, 1.100, Ardea, ma anche piccoli camion. Mastro Vito era un uomo burbero e irascibile sul lavoro, ma dolcissimo nella vita: schiere di giovani hanno imparato il mestiere spesso prendendo urla, ceffoni e “sifonate” (colpi di tubo di gomma).
Di fronte, un altro meccanico, non di auto ma di motociclette, Carlo Custodero con la grande insegna della Gilera. Era un viavai continuo: le moto riempivano tutto il marciapiede e i giovani apprendisti erano numerosi. Mèst Carlücce, a differenza di mèst Véite, non alzava mai la voce; anzi, parlava quasi sottovoce e tutti erano pronti ad ascoltarlo e ad ubbidire. Era un meccanico singolare: ancora oggi apre e chiude la sua bottega tutti i giorni ad orario fisso pur non lavorando da quasi quarant'anni. Elegante nel portamento, vestiva una tuta bianca immacolata e faceva bella mostra specialmente durante la Milano-Taranto, mitica corsa motociclistica che aveva il punto di controllo in via Taranto, vicino alla villa comunale. Quando arrivavano le “Gilera” per lui era una grande vittoria (era guerra acerrima tra la Gilera e la Moto Guzzi) e si dava un gran da fare per garantire al pilota l'ultimo controllo prima del salto verso Taranto.
Carlo Custodero fu tra i primi ad impiantare una pompa di benzina davanti alla sua officina: alta, rotonda e con una grande manovella che bisognava muovere avanti e indietro per pompare la benzina. La mia casa era sopra l'officina di Custodero e non erano rari i mugugni “silenziosi” del maestro quando vedeva mia madre accendere il ferro da stiro nel balcone. Lui temeva un incendio ma mia madre doveva pur “accendere” il ferro per stirare qualche lenzuolo appena ricamato che bisognava consegnare a qualche giovane promessa sposa.
Quasi di fronte, un altro artigiano: mèst Pèppe Polpètte, Giuseppe Nistri, carradore. Era un uomo minuto, gran lavoratore intorno ai traini che sembravano enormi vicino a lui. Per noi ragazzi, era una grande curiosità quando mèst Pèppe decorava con mano ferma e colori accesi le ruote e gli assi laterali, ma la curiosità maggiore era quando doveva “ferrare” le ruote del traino.
Di buon mattino, i grandi cerchi di ferro erano adagiati nella strada sterrata di Sante Pite, la strada che porta a San Lorenzo (oggi via Sampietro), ed erano tutti coperti di trucioli e piccoli legni accesi; il fuoco veniva alimentato continuamente per tutta la mattinata mentre a fianco venivano collocate le grandi ruote sugli scanni. Mèst Pèppe controllava tutto con molta attenzione: la ferratura delle ruote era una operazione di grandissima importanza per la riuscita di un buon traino, e, se l'operazione non era stata fatta con maestrìa, al forte carico le ruote potevano crollare di colpo. Quando i cerchi erano incandescenti e dilatati a dovere, tre uomini prendevano il primo cerchio e con precisione millimetrica lo collocavano sulla ruota bloccandola. Mentre il forte calore faceva bruciare il legno, mèst Pèppe, con un secchio e senza sprecare tanta acqua, faceva raffreddare rapidamente il cerchio, che, restringendosi, serrava la ruota in modo definitivo.
Il quadrilatero delle botteghe vicino al ponte di via Roma si completava con quella di Antonio Magno, fabbro, detto u Carciarire. La storia di questa bottega è singolare: fu costruita intorno al 1870 da Giacomo Lorusso, fabbro, che realizzava i cerchi in ferro per carri, tutti i ferri per i birocci, comprese le molle, cancelli e balconi, gli attrezzi dell'agricoltura, zappe e vomeri (che venivano costruiti interamente o riparati). Lorusso, che era anche riparatore di armi, fu maestro di molti giovani che frequentavano la bottega per imparare il mestiere di fabbro, e tra gli ultimi allievi troviamo proprio Antonio Magno, che crebbe all'ombra del maestro.
Giacomo Lorusso morì a 81 anni, nel 1935, senza poter lasciare a un erede l'attività di fabbro. Fu così che Antonio Magno poté avere dalla nipote del suo maestro, Maria Rosati in Natoli, la possibilità di continuare a esercitare il mestiere negli stessi locali e con gli stessi attrezzi (1).
Anche mèst Antònie ebbe molti allievi, e il suo lavoro, oltre che a continuare a costruire cerchi, fu orientato specialmente verso le attività contadine: aratri, trebbiatrici meccaniche, traini, birocci. Il marciapiede davanti alla bottega era sempre occupato da mezzi agricoli in riparazione, perché la bottega era troppo piccola per contenerli.
Tra i tanti ragazzi che frequentarono la bottega di mèst Antònie, nel 1950 arrivò un ragazzino di 14 anni, Donato Amati, che già era stato a bottega da Giovanni Fanizza, carradore, insieme ai suoi figli, Ciccio, oggi a Taranto, e don Rocche, ma che aveva deciso di cambiare bottega.
Le attitudini di Donato furono subito apprezzate dal maestro, che lo mise a limare le finiture in ferro dei birocci: al momento del montaggio e della consegna dovevano brillare. Come Antonio Magno era cresciuto all'ombra del maestro Giacomo Lorusso, così il giovane Donato crebbe all'ombra del suo maestro, col quale stabilì rapporti di sincera stima. Nel 1989, quando mèst Antònie morì all'età di 91 anni, anche per lui doveva ripetersi lo stesso problema che aveva avuto il maestro: il suo unico erede maschio non lo aveva seguito nell'attività, che rischiava così di chiudere definitivamente. Ma la lungimiranza degli antichi artigiani aveva fatto sì che, molti anni prima, avendo superato gli ottant'anni, aveva pensato di mettersi in pensione lasciando l'attività e gli attrezzi al suo allievo, che diventava così mèst Dunäte, dopo oltre quarant'anni di lavoro alle dipendenze del maestro.
La bottega, invece, per eredità, era passata nella proprietà del dottor Valentino Natoli, che garantì a Donato Amati quello che sua madre aveva garantito ad Antonio Magno: poter continuare ad esercitare il mestiere di fabbro negli stessi locali.
Ecco la singolarità: tre maestri fabbri si sono succeduti negli stessi locali per continuità di lavoro in un arco di tempo di quasi 130 anni, e per lo stesso periodo i proprietari dell'immobile, anche con un sacrificio economico notevole, hanno permesso che quella bottega rimanesse vincolata a quel lavoro.
Ma ora, per la bottega di fabbro di via Roma, si è giunti al capolinea? Mèst Dunäte ha raggiunto l'età della pensione. Inoltre, il traffico, il semaforo impiantato all'incrocio, le nuove regole del lavoro artigiano e le esigenze di un lavoro moderno non permettono più di poter lavorare in quel luogo.
La bottega, quindi, forse è al capolinea, ma non l'attività di fabbro. Vi è infatti un quinto giovane maestro, pronto a continuare la tradizione in una bottega nuova e moderna, nella zona industriale di Fasano. Si chiama Raffaele Amati ed è figlio di mèst Dunäte, con un diploma di perito in tasca e un tirocinio nella bottega di Cesare Trisciuzzi oltre che in quella del padre. Auguri Raffaele, hai le carte in regola per essere mèstre e per dare onore a quei maestri che ti hanno preceduto in una bottega di bravi artigiani e di uomini veri, che hanno fatto la storia della nostra città.
di Angelo Sante Trisciuzzi
di Redazione
31/05/2015 alle 12:46:06
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