FEDE E FOLKLORE NEL CULTO QUARESIMALE DEL POPOLO FASANESE
La Passione di Maria
da Osservatorio n. 3 marzo 1998
Anticamente la fine della quaresima, a Fasano, era pervasa da un clima d'intensa emotività che scaturiva, in gran parte, dalla sincera devozione per l'Addolorata custodita nella locale chiesa del Purgatorio (eretta nel 1696). A questo simulacro mariano erano dedicate toccanti funzioni religiose e manifestazioni di culto spontaneo da parte del popolo.
Il rispetto devoto per la Mater dolorosa cominciò ad affermarsi ovunque nel Mille, consolidandosi nel 1200 grazie alla diffusione delle Laudi popolari e all'opera dei Serviti, ordine dei Servi di Maria, i quali veneravano la Vergine affranta presso la Croce del Figlio. Le pene di Maria, inizialmente 13, poi ridotte a 7, e cioè «la profezia di Sirneone; la fuga in Egitto; la perdita di Gesù nel tempio; la salita di Gesù al Calvario; la crocifissione; la deposizione; la sepoltura» (cfr. L. DE VENUTO-B. ANDRIANO CESTARI, Santi sotto campana e devozione, Schena, 1995, p. 60), costituirono oggetto di culto da parte dei nostri nonni. Oggigiorno, nonostante le varianti intervenute nella data di celebrazione, la locale Confraternita del Pio Monte del Purgatorio ha voluto conservare l'antica consuetudine che collocava la “festa” della commemorazione liturgica dei dolori della Vergine nel Venerdì di Passione (otto giorni prima del Venerdì Santo), detto e riconosciuto dalla Chiesa nel Sinodo di Colonia (1423) come il venerdì delle «angosce di nostra Signora».
La “festa” suddetta, come avveniva in passato, è attualmente ancora preceduta da un settenario in ricordo delle sette spade, simbolo, dei dolori della Madre di Dio. E andata perduta la tradizionale conclusione secolare della festa, celebrata con la processione della Santa Immagine (metà percorso consueto).
In quell'occasione l'Addolorata indossava un prezioso abito finemente ricamato in oro e, nell'immaginario popolare, “si trasfigurava”, nei senso che l'espressione del sacro viso, con le labbra dischiuse al, sorriso, assumeva una celestiale serenità, non facendo presagire la drammaticità dei giorni successivi. E scomparsa altresì la seconda processione, dal percorso brevissimo, che si teneva nelle ore vespertine del Giovedì Santo. L'Addolorata era portata in processione dalla chiesa del Purgatorio, attraverso piazza Ciaia e via del Balì, alla chiesa Matrice, ov'era in corso «l'orazione panegirica».
Il corteo processionale si fermava dinanzi alle porte chiuse della Matrice; «il crocifero bussava con la croce astile» e il quaresimalista, dall'interno, dopo aver interrotto il commovente sermone, chiamava a gran voce la Madonna: «Vieni o Maria, vieni», invitandola ad entrare. La scena si ripeteva più volte e, alla fine, le porte venivano spalancate, lasciando entrare la venerata Immagine.
La commozione dei fedeli toccava l'apice quando il simulacro dell'Addolorata, raggiunto il pulpito, era sollevato, ricevendo dal predicatore la Croce. Maria proseguiva quindi il suo cammino per sostare, ancora, dinanzi alla cappella del SS. Sacramento, sempre in chiesa Matrice: ad attenderla c'era il priore-parroco, che, prelevato il Crocifisso dalle braccia della Vergine, lo adagiava nel “sepolcro” ivi allestito, secondo la tradizione, con ciotoline di fili di grano e vasi di ciclamini e violacciocche.
Il corteo si avviava quindi verso l'uscita e, rifacendo il percorso precedente, riportava il simulacro nella sua abituale “dimora”. Da qui l'espressione popolare: «Chiazza chiazze vé i chiazza chiaz ze vine» (piazza piazza va e piazza piazza ritorna). Dopo la straziante visita della Madonna, il cerimoniale si prolungava fino all'appassionata conclusione del sermone tra la commozione intensa di un uditorio profondamente partecipe. Gli emigranti e i concittadini non residenti in loco ritornavano a Fasano per poter partecipare a questa funzione sacra davvero unica. La memoria corre ai fratelli Umberto e Attilio Gaito, e al professar Consoli, figlio di don Peppe, i quali ogni anno si univano puntualmente alla nostra comunità per meditare sulle pene dell'Addolorata.
La celebrazione di questa funzione, dedicata a “Maria Desolata”, in Puglia, come in altre località italiane, avveniva nel pomeriggio del Venerdì Santo (cfr. DE VENUTO-ANDRIANO CESTARI, op. cit., p. 63). Perché, allora, a Fasano lo stesso rito veniva anticipato di un giorno, il Giovedì Santo appunto, come risulta da numerose e attendibilissime testimonianze oculari di fedeli che, a tutt'oggi, ricordano cori nostalgia quel sermone semi-drammatico, costellato di irripetibili emozioni? Nel nostro paese, a differenza di quanto avviene in altre località, da tempo immemorabile non c'è un'unica processione dei Misteri, bensì tante quante sono le confraternite aventi a disposizione le statue della Passione. Anticamente i cortei processionali erano distribuiti nell'arco di tempo che andava dalle prime ore del Venerdì Santo (giorno non lavorativo), con l'immagine di “Gesù all'orto”, fino alle ore vespertine, quando cioè aveva luogo la solenne processione del Purgatorio (adesso, per esigenze pratiche, i primi due cortei dei Venerdì Santo, “Cristo all'orto” e “Cristo alla colonna”, sono stati anticipali alla sera del Giovedì). Per questo motivo riteniamo che, probabilmente, con l'anticipo al Giovedì si volle tenere distinta «l'orazione panegirica» dalle processioni del Venerdì Santo per dare risalto e maggiore intensità al clima di riflessione emotiva suggerita dalla memoria dei dolori della Vergine, prima di meditare sul significato escatologico del sacrificio di Cristo. Ciò consentiva di soffermarsi sugli aspetti umani della Passione, fra cui l'incommensurabile dolore che la Madre di Dio prova per il martirio del Cristo. Non dimentichiamo, inoltre, che in alcuni canti popolari pugliesi è proprio il Giovedì Santo che la Madonna indossa il manto e se ne va, sola sola, in cerca del Figlio. L'Addolorata diventa la pellegrina del dolore per eccellenza: a lei le nostre nonne ricorrevano quando si sentivano prostrate dallo sconforto, e davanti alla sua effigie sotto campana, presente in tutte le case, sì pregavano accoratamente: Santìssema Vèrgene Addulurate / jusce me sènte scunzelate, / préime ca passe chèssa sciurnate, / cu la vostra gràzie me cunselate. / Madonna Sante Addulurate, / tutte u munne ha cammenate, / vìine a casa mé, i cusse state / famme passé. T'àggia déisce n'Avè Marì Pe me sènte cunseliite» («Santissima Vergine Addolorata, oggi mi sento sconsolata; prima che trascorra questo giorno, con la vostra grazia consolatemi. Madonna Santa Addolorata, tutto il mondo hai percorso: vieni a casa a mia, e questo stato di protrazione fammi passare. Reciterò per te un'A ve Maria per sentirmi rasserenata») .
Comunque, al di là delle ipotesi relative alla collocazione del Giovedì Santo, e di facili considerazioni sulla matrice “spagnolesca” di tali manifestazioni, va riconosciuto il loro grande spessore emotivo ma anche religioso. A queste autentiche “cerimonie paraliturgiche” il popolo, senza stravolerne il carattere essenziale, ha dato via via propri colori e forme, nobilitandole con un tocco di spontanea, leggiadra poesia.
L'ultima delle tre celebrazioni penitenziali in onore della'Addolorata comprendeva la processione solenne che percorreva le vie cittadine la sera del Venerdì Santo, con la partecipazione corale dei fedeli in abito rigorosamente nero. Il viso dell'effigie vestita a lutto, sempre secondo la credenza popolare, assumeva, differentemente dal citato giorno della sua festa (Venerdì di Passione), un'espressione sconsolata e fortemente amareggiata. Nel viso di Maria ciascuno vedeva riflessi il dolore universale, le grida disperate dell'innocenza calpestata e vilipesa, la sofferenza della gente del Sud, il dramma umano in tutte le sue tortuosità. Dell'intero ciclo quaresimale, questo, insieme a quello del Giovedì Santo, era uno dei momenti più alti.
La flagellazione
Sull'onda delle memorie rievochiamo un'altra tradizione legata alla Settimana Santa: la flagellazione, pratica collettiva di mortificazione e penitenza in uso da noi fino al primo decennio del secolo. Nella chiesa dell'Assunta attigua alla Matrice, in un non precisato giorno, il quaresimalista, di solito un missionario, teneva una struggente predica per soli uomini, tra cui i confratelli dell'omonima congrega. Alla fine del sermone i devoti, affiancati da altri fedeli, si univano in processione e, fustigandosi da soli o reciprocamente sulle spalle o sulla schiena, attraverso via del Balì raggiungevano piazza Ciaia. Di lì, tenendo lo stesso percorso di prima, rientravano in chiesa per pregare.
Gli strumenti usati per punire il corpo e i sensi, acquisendone così il controllo, erano verghe flessibili, fruste di cordicelle talora annodate, funi, tiranti di barrocci e altro. Si racconta che, una volta, un concittadino, essendosi dimenticato la cordicella a casa, senza perdersi d'animo si sfilò la cintura dei pantaloni e, mentre con una mano reggeva i calzoni, con l'altra si batteva. Non c'è da meravigliarsi che, in un momento di così alta drammaticità, ci scappasse una nota di euforia. La flagellazione o “disciplina” fu usata in Oriente come penitenza volontaria dai monaci cristiani e dagli eremiti e ciò farebbe pensare a rapporti con tecniche ascetiche precristiane asiatiche. Essa è presente nelle antiche regole monastiche, tra cui la benedettina, tuttavia il suo uso rimase più frequente in Oriente. In Occidente fu riproposta nel Mille da San Pier Damiani, divenendo una regola dell'ordine camaldolese, legato ai modelli eremitici orientali. Nel 1200 la “disciplina” passò ai laici, e nacquero vari movimenti di flagellanti, disciplinati, battuti o cappucciati. Si volle imitare Cristo proprio con la fustigazione, come richiamo alla flagellazione da Lui subita per ordine di Pilato. Centinaia di flagellanti, in gruppi, indossando un abito che lasciava le spalle scoperte, intraprendevano un viaggio di 33 giorni e mezzo in memoria della vita terrena di Gesù, e, tra laudi e salmi, si percuotevano più volte al giorno. Dopo alterne vicende e la condanna di papa Clemente VI per i disordini sociali provocati dalla “disciplina”, quest'ultima fu ripresa alla fine del '400 nell'Oratorio del Divino Amore e, successivamente, dagli ordini e dalle confraternite della riforma cattolica (Gesuiti).
Detto ciò, ipotizziamo che a Fasano la pratica della flagellazione sia stata introdotta inizialmente dai monaci basiliani, e ripresa, molto più tardi, dalla Compagnia di Gesù. Dalla fine del '500, infatti, si diffuse nel Sud, e di conseguenza in Puglia, l'opera missionaria gesuitica, che, oltre ad assistere materialmente gli indigenti, invitava i fedeli ad una rigida vita devozionale, comprendente la battitura pubblica collettiva in quaresima. Durante le missioni, non più occasionali ma organizzate, venivano fondate congregazioni mariane, e, per quanto ci riguarda, anche a Fasano nacque la Confraternita dell'Assunta, fondata dal padre gesuita Domenico Bruno nel 1716 con la denominazione di “Confraternita della Purificazione”, sostituita nel 1727, anno di costruzione della chiesa dell'Assunta, dall'omonima e attuale intitolazione. Detta congrega fu riconosciuta da mons. Vinditti e, nel 1777, confermata dal Re Ferdinando (v. A. CUSTODERO in G. SAMPIETRO, Fasano, indagini storiche, rist. anast. Schena 1979, p. 332). Ciò fa comprendere come proprio dalla chiesa dell'Assunta partisse la processione dei flagellanti, costituita in primis dai confratelli dell'omonima congregazione, di cui abbiamo precedentemente parlato.
Rievocando alcuni dei tanti e suggestivi momenti di fede e folclore che accompagnavano i nostri antenati nell'iter quaresimale, non s'è voluto fare un artificioso recupero di consuetudini ormai tramontate, bensì offrire un'occasione per riflettere sul particolare modo di essere della nostra comunità e sulla sua sensibilità nel meditare intorno al mistero della vita e della morte. Auspichiamo che questi ricordi, rivissuti con amore, ci aiutino a conservare nella memoria quei valori che i nostri padri seppero tradurre in programma di vita.
di PALMINA CANNONE
di Redazione
30/03/2015 alle 20:04:24
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