IL BAMBINELLO NEI VERSI DI TRE AUTORI FASANESI
Quando il Natale sa di poesia
da Osservatorio n. 12 – dicembre 2008
Antichi santini della natività
Portarsi dentro la poesia del Natale ci preserva dall'invecchiamento dello spirito. Ci cuce addosso il vestito dell'eterna fanciullezza, sicuro talismano contro l'invidia del tempo. Ricordi e speranze passeggiano a braccetto sul viale della vita, che ogni anno torna a regalarci la malìa del 25 dicembre. Lo scambio di auguri ci fa gustare la gioia della condivisione tra effluvi di emozioni, in cui ipocrisia e meschinità sono bandite.
I voti augurali, se sinceri e speciali, vanno a popolare le stelline che incendiano il cielo sovrastante alla greppia dei sentimenti più genuini.
Mi sono ritrovata tra le mani uno scritto che il professor Nico Bulgaro mi spedì da Roma, sua seconda patria dopo Fasano, il 13 dicembre 1999, augurandomi in largo anticipo, insieme alla consorte Graziella, un sereno Natale e un felice anno nuovo.
Un foglietto originale, vergato a mano, intitolato Preghiera e poesia. In alto, un pensiero di Massimo Bontempelli (1878-1960): «La preghiera, come la poesia, è la resistenza dell'anima che vuole tornare al cielo, contro la storia che vuole accomodarsi alla terra... Nessuna operazione logica può darne ragione».
Il prof. Bungaro mi regalava una riflessione sul realismo magico del Bontempelli, sul gioco intellettivo delle parole, che s'incunea nel mondo, mettendone in luce le antitesi e costringendolo ad assumere una dimensione di favola e di surrealismo.
In fondo, la “favola” cristiana del Bambinello è tenue come nota soffiata sul vetro della poesia, in apparenza fragile, in realtà vibrante e appassionata come sorgente di preghiera. Nella povera mangiatoia, da secoli, l'uomo rinasce come sole, che fa fiorire vita e luce, riscattando in un trastullo di chiaroscuri perfino la maschera del male di Erode, oggi come ieri. Mi si consenta l'iperbole, giustificata dallo slancio entusiastico del sentimento.
Nico Bungaro prosegue negli auguri, dedicandomi un suo componimento in vernacolo fasanese, quale omaggio alle proprie radici. Eccolo:
“Auguri”
Pe Natäle i Cäpedanne
tanda zùccre i tanda panne!
U Bommëine i a Mamma saue
cu benedìcene a cäsa taue.
Na máine de prìsce
na mòrre de bìne
pe júsce, pe cré,
i pell'anne ce vìne.
(Trad.: «Per Natale e Capodanno/ tanto zucchero e tanta panna!/ Il Bambinello e la Mamma sua/ benedicano la casa tua./ Un fiume di gioia/ un sacco di bene/ per oggi, per domani,/ e per l'anno che viene»).
Quanta intensità vibra in questi auspici di letizia e prosperità! La forza sottile di comunicazione dell'autore coinvolge intimamente con grazia penetrante, risuscitando situazioni psicologiche vissute quando eravamo bambini.
Sul medesimo biglietto, il Nostro scrive una sua seconda lirica, stavolta in italiano, intitolata come la prima. La proponiamo qui, estendendo gli auguri natalizi anche ai lettori di Osservatorio:
“Auguri”
Fra nuvole di rose
e angeliche carezze
del Magico Natale
gustate le dolcezze.
Fra ingenuità di cose
e semplici piaceri
maturi l'anno nuovo
i vostri desideri.
La leggerezza delle immagini cristalline ed eteree della lirica amplifica il linguaggio poetico, caricandolo di una profondità in cui è facile adagiarsi mollemente con pudore, semplicità, modestia e orgoglio.
Ora Nico Bungaro non c'è più, ma auguri inzuccherati di poesia mi pervengono ugualmente. Me li porge Gianni Custodero, finissimo poeta, oltre che eccellente giornalista, scrittore e storico. Da parecchi anni mi invia un suo preziosissimo libellus, da lui stesso edito, stampato in limitatissimi esemplari, scritto per l'occasione. Solitamente raccoglie liriche. Nell'anno 2000, invece, riportava un simpaticissimo racconto, Un presepe su Marte, che all'epoca proposi ai miei studenti, i quali ne apprezzarono la sottile ironia.
Lo ringrazio pubblicamente per un dono così particolare, che mi elargisce bouquet poetici olezzanti di stima e di amicizia.
Nel libretto intitolato Cavalli & tornesi, Gianni Custodero così si esprime nella brevissima lirica “Stella di Natale”:
Avvampa di rossore
la stella di Natale
trasformata ormai
in merce di consumo.
Versi lapidari, eruttati da un vulcano in piena attività. Un'immagine colorita, in cui si accendono su un piano impressionistico le sensazioni più varie, i pensieri più complessi, le riflessioni più fervide, le energie più attive, le analisi più spietate del consumismo odierno, che annichilisce perfino l'anima del fiore natalizio per eccellenza.
Rileggendo con piacere l'opuscoletto natalizio del 2006, Tra scampoli d'azzurro, dello stesso autore, mi soffermo su una poesia intensissima in esso contenuta, dal titolo “Nell'incerto tepore”:
Nell'incerto tepore
d'un clemente dicembre
un nonnetto canuto
davanti a una vetrina
si è fermato a guardare
un angolo Natale
con un Gesù Bambino
ch'è piccino piccino:
“Tu scendi dalle stelle”
cantato tante volte
risuona nel ricordo.
Per un attimo sente
un po' di quel calore
che riempiva la casa
nei favolosi giorni
dedicati al presepe.
Nell'atmosfera consumistica (tema ricorrente nella poetica custoderiana) del Natale di oggi, un nonno sosta dinanzi a un'ammiccante vetrina. Una statuina del piccolo Gesù lo riporta indietro nel tempo. L'aria si profuma di dolcezza: il desiderio di astrazione dal reale fenomenico presente diventa sogno, identificandosi quasi col ricordo nostalgico di una realtà lontana e perduta. Si accende la fantasia, si eleva l'edificio delle immagini e il vecchietto canuto si ritrova bambino nel calore della famiglia mentre allestisce il presepe e intona «Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo/ e vieni in una grotta al freddo, al gelo...».
Quella canzoncina, riportata sul retro dei vecchi santini che le nonne donavano ai nipotini nella Notte Santa, dopo la messa di mezzanotte, l'abbiamo imparata tutti. Quanta arcana beatitudine infondeva nei cuoricini non ancora feriti dalle angosce!
Il sogno, nel duplice senso di visione e di immaginazione, è un tòpos ricorrente della poesia simbolista (si pensi al Pascoli: «Per un attimo fui nel mio villaggio, / nella mia casa. Nulla era mutato...»). Come desiderio, evasione o ricordo, si rivela costante tematica, fra le più tangibili, in poeti come Baudelaire, Rimbaud, Laforgue. L'attitudine al tipo di rêverie squisitamente malinconica, che si evince dalla succitata composizione del Custodero, la si ritrova a mio avviso nel poeta spagnolo Antonio Machado y Ruiz (1875-1939), col quale il Nostro ha molte affinità. Stessa attenzione vigile a dare un segno preciso alle visioni, di volta in volta incantate o dense di memoria, ad affrescare la realtà servendosi di concrete connotazioni. Un realismo filtrato dall'animo poetico e restituito alla pagina attraverso un ininterrotto e profondo meditare.
Un'altra brevissima lirica di Gianni Custodero mi piace qui riportare, tratta dal medesimo libello innanzi citato. Il titolo è “Calendario”:
I foglietti del calendario
fanno malinconia:
restano solo un giorno
per poi volare via.
Con quei foglietti, purtroppo, volano i nostri sogni, ma resta pur sempre “l'audacia” della speranza, che ci proietta verso vette a volte facili da scalare, altre volte irraggiungibili. Non appallottoliamo la speranza per buttarla nel cestino della spazzatura: insieme all'amore e alla ragione, essa ci rende uomini liberi. Gianni Custodero docet! Prefiggiamoci questo per il 2009, magari aiutandoci coi versi di un altro componimento del nostro poeta, titolato “Tra scampoli d'azzurro”:
(...) Ho perduto per strada
tutte le mie illusioni.
Ho visto troppe cose
ho sentito altre, tante.
Mi aggancio alle parole
mentre fuggono i giorni
e la memoria.
Però continuo ancora
ostinato a coltivare
esili fili di speranza.
Per concludere questa breve carrellata di versi natalizi scritti da poeti fasanesi, mi si consenta di rivolgere un pensiero a colui che è stato il protagonista della mia ultima fatica letteraria: don Filippo Bonifacio (1857-1929), il nostro prete-poeta dalla penna irriverente, ma anche lirica.
Negli anni del primo conflitto mondiale, miseria e dolore affrescano uno scenario tragico. Gesù nasce ugualmente e la gente prepara per Lui il presepe della speranza. In un Natale di questi, in cui si evidenzia l'ossimoro della storia (morte e vita), il Bonifacio viene invitato a benedire il presepio di due coniugi fasanesi, suoi parrocchiani, che lo invitano poi a restare a pranzo. Don Filippo li ringrazia con l'unica ricchezza posseduta: l'innata vena poetica. Nasce così la seguente composizione dialettale:
“U Presep”
Quan ha gì viste u Presep vust
s'annarrizzicat cu i capid i cust,
stab bun, hi dit: a cas vost,
a man mi han pust a costa cost.
N'affasc nud, Gesù Bambin
ha vassuné u mandulin
pi vuvu ca sit divot assé,
pac e vit lung ha vit havé!
Inta misere di ches guer
haggi rummas cu i pid inter;
i pit mè han fat i gad
a cum i pid di cavad.
Mi vat sul abbandunat,
tir a vit, a du cata cat:
u confort mì, hì allu Signor,
ca m'hajuté in tutt l'or!
Vuvu ca sit già spos antich
addifricchiavt bun u vindich,
pi man u Bambin ha va pinzé
ca u quint du pan namma manché.
Sò chis i virs ca va gì fat,
a cum hanni sut, o crud, o sfat;
m'ha vit molt accumpiatì
ca mi truvat cu a not in Mì!
Vi salut tut di famigl fort fort
pi man u Signor m'ha prì na port,
e quan vul, cu a sant grazz,
mi fasce cuntent e sazz.
(Trad.: «Quando ho visto il presepe vostro,/ ho sentito brividi, coi capelli, alle spalle:/ “Stetti bene – ho detto – a casa vostra,/ mi hanno sistemato a lato lato:/ non importa, Gesù Bambino/ suonerà il mandolino/ per voi che tanto devoti siete,/ pace e vita lunga avrete!”./ Nella miseria di questa guerra/ sono rimasto coi piedi per terra;/ i piedi miei si son riempiti di calli,/ come i piedi dei cavalli./ Mi vedo solo e abbandonato,/ tiro la vita, dove cade cade (a casaccio):/ il conforto mio è nel Signore,/ che mi aiuterà a tutte l'ore./ Voi, che siete già sposi antichi,/ rinfrescatevi l'ombelico,/ a me penserà il Bambino,/ affinché un tozzo di pane non mi manchi./ Sono questi i versi che vi ho fatto,/ come mi sono usciti, o crudi, o sfatti;/ dovete molto compatirmi/ ché mi son trovato con la nota in Mi!/ Vi saluto tutti di famiglia, forte forte,/ per me il Signore aprirà una porta,/ e, quando vuole, con la santa grazia,/ mi farà contento e sazio»).
Don Filippo, partendo dalla realtà locale e personale, nelle sue poesie ha metaforizzato i mali universali dell'umanità, che sono di ogni tempo, e li ha raccontati senza ipocriti veli.
Si comprende facilmente in questo componimento, come del resto in tanti altri, quanto l'autore sia stato premonitore dei tempi.
L'attualità dei versi si evidenzia in tutta la propria trasparenza: le guerre passate, abbandonate le vecchie baionette, si sono reincarnate in nuovi mostri, in conflitti storico-politici, socio-economici, etico-scientifici, per citarne solo qualcuno.
Nell'affastellato e ipertrofico mondo dei poteri forti, avidi, ingiusti, accumulatori e dispendiosi, i nuovi “poveri” vengono messi «a costa cost», così come fecero i due parrocchiani della succitata poesia con don Filippo.
Non è permesso loro di occupare un posto d'onore al banchetto dell'opulenza.
Del resto, come potrebbero, se sono rimasti, quanto il povero curato, «cu i pid inter» e doloranti per i numerosi calli provocati dalle scarpe rotte, che non possono neppure far ricucire per mancanza di quei pochi denari necessari?
E che dire dei due versi «Mi vat sul abbandunat, / tir a vit, a du cata cat»? Non si sentono altrettanto abbandonati i tanti lavoratori licenziati o in cassa integrazione, i precari, i giovani a cui è negato un futuro dignitoso, i disoccupati, i pensionati, coloro che lavorano in nero per una misera paga?
Che l'attuale crisi non ci sottragga la voglia di festeggiare il Natale con quel briciolo di dignità che ancora non ci hanno “tagliato”!
«U confort mì, hì allu Signor, / ca m'hajuté in tutt l'or!» scrive don Filippo Bonifacio.
Facciamo nostra la fede e la speranza che animarono il povero curato fasanese.
Che il Bambinello ascolti le preci di quanti con umiltà innalzeranno a Lui la propria canzone d'amore.
Lieto Natale a tutti!
di Palmina Cannone
di Redazione
19/12/2014 alle 09:51:56
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