ITINERARIO GASTRONOMICO NELLA GUSTOSA TRADIZIONE NATALIZIA FASANESE
Pancia mia fatti capanna
da Osservatorio n. 12 – dicembre 1995
Nella civiltà dei bisogni sempre inventati, dei consumi perennemente corteggiati, delle nuove abitudini sociali e alimentari, capita spesso di sentirsi defraudati del piacere di godere delle cose semplici di una volta. Piacere tramandatoci dai nostri avi, che seguivano una filosofia di vita intessuta di saggezza profonda, riscontrabile ripercorrendo piacevolmente il mondo della gastronomia fasanese, un mondo di cibi umili, ma ricco di fantasia, di umori, di estri, di genuinità.
Il Natale, festa più importante dell'anno, era vissuto dai fasanesi come gioia dell'attesa. Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, infatti, particolare cura era riservata alla preparazione del cotto nel quale, la vigilia dell'Immacolata e di Natale, le massaie avrebbero delicatamente affogato le pettole. Quando i fichi erano ben maturi, venivano raccolti, lavati e messi a bollire per circa tre ore. Lasciati raffreddare un po', si sistemavano in un sacchetto di tela resistente a trama larga, collocato in posizione elevata per lasciar cadere spontaneamente prima, con l'aiuto delle mani poi, il liquido in un recipiente di terracotta. Il cotto si faceva bollire a fuoco moderato per cinque ore, rimestando con un cucchiaio di legno sempre nella stessa direzione. Quando si condensava, dopo aver fatto la prova sull'unghia del pollice per controllarne il grado di densità, veniva versato in bottiglie e conservato.
Sempre in agosto si preparavano, con un intervento, i capponi per il pranzo di Capodanno. I polli, dopo aver subìto l'amputazione della cresta, venivano sottoposti alla castrazione; olio e cenere servivano per disinfettare le ferite. Superata la convalescenza, i capponi aumentavano di peso fino a diventare maestosi, grossi, teneri, pronti per essere immolati al nuovo anno.
Nelle classi abbienti era consuetudine, la vigilia di Natale, gustare il capitone, l'anguilla e la spigola pescati a Torre Canne nel fiume di don Vittorio Aprile, di donna Maria Chicco Bianchi e Morelli. C'era anche chi preferiva il “Comacchio”, capitone arrostito, marinato e inscatolato, proveniente dalle valli di Comacchio (Ferrara), che si acquistava nella salumeria Cadorna in via Roma, rinomata per serietà e qualità. Gli altri optavano per il baccalà.
Secondo la tradizione, il menù di Natale comprendeva un piatto particolare: brodo di tacchino con gobbi lessi e tagliuzzati a dadini e uova sbattute con formaggio pecorino. Il suo aroma, tanto delicato, addolciva sia il palato che lo spirito. I gobbi, che si cucinano come i cardi, sono i getti laterali del carciofo interrato, circondato da carta e incurvato perché le sue coste s'imbianchino, divenendo tenere e carnose.
Un altro piatto per buongustai esigenti che prediligono il pollame, era il tacchino al forno con patate, contornato da finocchio, carote e lampascioni dorati e fritti. Seguiva la morbida e candida ricotta paesana.
Come una manna dal cielo, giungeva il momento più atteso, soprattutto dai bambini: quello del dolce. C'è da sottolineare il fatto che le nostre nonne, nella preparazione dei dolci e dei liquori, infondevano la dolcezza del cuore, la tenerezza dell'anima, il calore dell'amore. I loro, più che dolci, erano poesia calda e olezzante della pasta sulla madia, delle mandorle baciate dal sole, dei fichi odorosi di nettare, delle erbe salutari e misteriose nella profondità delle loro frizzanti essenze afrodisiache.
Le pettole, pallottole deformi, leggere e soffici, cosparse di cotto, e le cartellate a forma di rosa o fiocchi, cosparse di miele, polvere di cannella e allegri confettini multicolori, facevano degna compagnia ad un'altra ghiotta leccornia: il latte di mandorle. Era quest'ultimo un particolare dolce al cucchiaio di cui resta soltanto un nostalgico ricordo, servito in coppette di vetro o porcellana. Si otteneva facendo bollire per dieci minuti in una soluzione di acqua e zucchero, aromatizzata con una buccia di limone ed un bastoncino di cannella, le mandorle precedentemente lessate, sbucciate e finemente tritate. Si aggiungeva la pastina del formato “puntine” e si faceva bollire per cinque minuti.
Degni dei palati più raffinati erano i sosomelli, pasticcini a forma di rombi, ottenuti con ingredienti molto aromatici: cotto di fichi, cedro candito, buccia grattugiata di limoni e arance, cannella in polvere, chiodi di garofano, cacao amaro, gherigli di noci, zucchero,. farina, bicarbonato e cremore di tartaro. Dopo la lievitazione, si stendeva l'impasto, si formavano dei bastoncini e s'infornavano.
Questa specialità e altre ricordano certi dolci della pasticceria orientale, che ha in comune con la nostra la particolarità di servirsi di prodotti locali, come frutta secca, miele e cotto, uniti a spezie.
Dulcis in fundo, faceva la sua comparsa la frutta di stagione e non: arance, mandarini, nespole maturate nella paglia, fichi secchi semplici e mandorlati, cosparsi di polvere di cacao, noci e mandorle tenere infornate.
Per prolungare ulteriormente il pranzo, assaporando ancora la gioia di stare insieme in allegria, si continuava con taralli all'olio e vino, fagottini farciti di marmellata e frutta secca, fave arrostite e ceci fritti. I ceci richiedevano tempi lunghi per la preparazione ed un'insolita cottura. Dopo averli sistemati in una coppa di creta, si versava dell'acqua bollente, nella quale permanevano il tempo occorrente alla recita di un Credo (la preghiera, nei tempi antichi, fungeva da clessidra). Sgocciolati si avvolgevano, ben stretti, in un panno di lana tessuto a mano, lasciandoli riposare per più di dodici ore. Successivamente si friggevano in una padella ripiena di fracéine, acquistata dalla storica figura di Gesèppe d'a fracéine, che girava per le vie di Fasano riempiendo pe quàtte salde nu careine.
I ceci raggiungevano la cottura quando scoppiettavano come fuochi d'artificio, saltellando in una frenetica danza. Naturalmente si servivano dopo essere stati accuratamente setacciati e puliti.
Anticamente nel menù di Capodanno si trovava la zuppa alla santé, apposito brodo di cappone con sedano lesso, asparagi, polpettine, pane a dadini fritto o arrostito.
Il momento solenne era riservato al cappone al forno con contorni vari: scarola bianca condita con olio e aceto, e fritto di cavolfiori e patate.
Tra i dolci, oltre alle cartellate al miele, facevano bella mostra di sé i deliziosi occhi di lupo farciti di crema e il croccante torrone ottenuto con mandorle, miele e purcìdde (dadini di pasta di taralli) fritti.
I liquori erano preparati in casa con infinita cura e pazienza. Gradevole il rosolio d'arancia che si gustava a Natale; quelli di limone, mandarino, menta, caffè e cacao si bevevano a Capodanno e nel giorno dell'Epifania. Venivano sorseggiati negli antichi “ditalini”, bicchieri di cristallo, opalina o vetro.
Per la cottura dei cibi, quasi sempre nel forno a legna, si usavano i cocci, tegami in terracotta che ne esaltavano sapori e qualità.
Molti signori, però, preferivano trascorrere il Natale al ristorante “Il Fagiano”, gestito prima da Francesco Bagnardi, poi dalla figlia, la signora Lucietta, che offriva ai suoi clienti, oltre alla raffinatezza delle pietanze, una signorilità incomparabile.
A Natale preparava la galantina di tacchino con zofilé, una pasta all'uovo riccia che richiedeva molta abilità nella preparazione. Non mancava il tacchino al forno disossato, farcito e servito a fette con contorno d'insalata di patate lesse, pomodori, ravanelli, carote gialle e rosse, cipolline sottaceto e qualche manciata di capperi; un trionfale tripudio di colori, accostati con elegante maestria. Un tocco di classe era il gateau, finissima torta bagnata col San Marzano, farcita di crema pasticcera e al cioccolato, in cui facevano capolino dolcissime amarene.
La torta, ricoperta di meringa ottenuta con albumi d'uovo montati a neve con zucchero vanigliato, sembrava una deliziosa montagna innevata. Una composizione floreale di frutta completava egregiamente il pranzo.
La signora Lucietta, inoltre, preparava il buffet per la serata danzante di fine anno, che si teneva al teatro Sociale e al Circolo della Selva. Venivano serviti volau vent farciti di piìté di pollo, acciughe e salumi. In bellavista, simili a star sul palcoscenico, recitavano la loro accattivante parte i cannuoli di pasta frolla alla ricotta, gli choux fritti farciti di crema, le bombe di crema gelata all'arancio, al mandarino, alla fragola e al rhum. Prelibati e odorosissimi mandarini, svuotati e ripieni di crema mandarinata, inebriavano tutti i sensi, dall'olfatto al gusto. La cucina del “Fagiano”, pur discostandosi apparentemente da quella tradizionale locale, rimaneva pur sempre fortemente legata al nostro paese.
Infine, c'è ancora a Fasano qualche persona anziana che ricorda il famoso gateau di Capodanno preparato da Leonardo Loconte, meglio conosciuto come Mèst Narduzze u statudre, per alcune famiglie ricche fasanesi e dei paesi limitrofi. Mèst Narduzze preparava il giorno prima i fondi di pan-di-spagna, li tagliava a strati e li bagnava con liquore di pasticceria all'essenza di curaçao. Spalmava il primo strato con crema pasticcera, farciva il secondo di pasta reale e amarene snocciolate (preparate alla fine del mese di giugno, mettendole a riposare crude per un mese con lo zucchero), il terzo di crema al cioccolato, il quarto di marmellata sempre fatta in casa preferibilmente perata e cotognata, e così via alternando, fino a raggiungere dodici strati, quanti i mesi dell'anno. Decorava la torta con ghiaccia reale, guarnendola al centro con un cestino, fatto di pastigliaccio, riempito con frutta variopinta di pasta di mandorle e colorata con colori di pasticceria. Il gateau era di buon auspicio per il nuovo anno.
A molta gente, purtroppo, non era consentito il lusso di andare al ristorante, né quello di gustare la torta di Leonardo Loconte o di preparare al completo il menù tradizionale, per cui, in quest'ultimo, si apportavano delle variazioni sempre proporzionate alle proprie finanze.
Questo viaggio culinario nel passato ci svela segreti, curiosità, usi e costumi dimenticati o poco conosciuti, consentendoci di apprezzare gli sforzi e l'abilità della nostra gente che riuscì, con arte, ad elaborare cibi semplici, fino a farne piatti appetitosi e gustosissimi, degni della tavola dei re.
Aspettando Natale, perciò, ci sia dolce tuffarci in questo mare di fragranze, di olezzi, di colori e di sapori antichi, per ritrovare le nostre radici in questa terra che reclama, a gran voce, il ritorno alla vita sana e bucolica di un tempo, ahimé, irrimediabilmente perduto.
Ringrazio le signore Angioletta Pezzolla e Lucietta Bagnardi per alcune notizie cortesemente fornitemi.
Di Palmina Cannone
di Redazione
18/12/2014 alle 17:07:16
Leggi anche:
Macelleria Peppino De Leonardis
Carni e prodotti freschi e alla brace
La storica macelleria De Leonardis con fornello pronto tutte le sere